Goodbye Prince

Il piccolo Principe se n’è andato a soli cinquantasette anni, nella sua Minneapolis: misteriosamente, com’era vissuto, lasciandosi alle spalle una carriera da cento milioni di dischi venduti e un’impronta indelebile nella storia della black music
Goodbye Prince

Se ne discuterà a lungo su cosa l’abbia davvero ucciso. Se una vita d’eccessi, una banale influenza o un’overdose di troppo: è il destino, del resto, di gran parte delle pop star morte prematuramente e in modo poco chiaro.

 

Quel che invece è lampante per tutti è che Prince Roger Nelson è stato, se non un genio assoluto, uno dei massimi innovatori della musica nera novecentesca. Uno degno di figurare in un’ipotetica galleria di fuoriclasse che va da Robert Johnson a Quincy Jones, passando per Duke Ellington, Miles Davis, James Brown e Jimi Hendrix.

 

Colui che all’apice del successo sembrava a molti solo la versione maleducata e provocatoria di Michael Jackson è stato in realtà un geniale miscelatore di tutto ciò che di più universale abbia saputo produrre nella sua lunga storia la musica degli afroamericani: la passionalità dei grandi del soul e la psichedelia di Sly and The Family Stones, il funky e la dance elettronica modernista che ancora oggi domina i mercati di molto pop a stelle e strisce, perfino echi della spiritualità gospel. Nella sua musica brillava un po’ tutto questo e molti altri ingredienti ancora, tracimando eros e pathos con la stessa inimbrigliabile irruenza di una cascata. Ma vi imperavano soprattutto il suo estro e la sua creatività compulsiva. Dunque, ça va sans dire, aspettiamoci inediti per anni…

 

Un approccio alla vita costruito su un’istintività quasi animalesca sulla quale s’innestava una curiosità da esploratore e la spregiudicata puntigliosità di tutti gli alchimisti. Eppure ogni definizione appare parziale per definire chi sia stato davvero Prince. Un precursore e un divulgatore, certo; ma anche un astutissimo business man e un artista capace di fregarsene delle regole dello star system; ma al contempo, un uomo tremendamente fragile, avvitato nelle sue misantropie, nelle sue spettacolari megalomanie e nei suoi capricci da miliardario scorbutico.

 

Oggi importa poco, in verità. Di certo c’è che un altro grande ha cambiato prematuramente domicilio, lasciandosi alle spalle una lunga teoria di enigmi irrisolti e di grandi canzoni: come Purple Rain (il suo più grande successo commerciale disco-cinematografico) o la memorabile Nothing compares to you, una delle più belle love song di tutti i tempi regalata all’ugola di Sinead O’Connors.  Ma anche qualche clamoroso flop, che il nostro archiviava con suprema nonchalance.

 

Uno sempre un passo avanti agli altri (senza certe sue intuizioni molte pop star della black music odierna probabilmente non sarebbero mai esistite), ma anche un aristocratico irregolare e bizzarro, sempre orgogliosamente lontano dalle consuetudini e dai diktat dei mercati. Un piccolo uomo e un grande artista appesi alle loro stesse iperboli tutte genio e sregolatezza (più di facciata che reale, mi vien da sospettare), ma che non arrivano comunque a svelare l’essenza di un’icona dai mille look e dai mille nomi che solo il tempo saprà dirci se e per quanto degna di sopravvivere all’ineluttabile oblio del tempo.

 

Sinceramente ogni giudizio oggi appare prematuro e forzato dall’emozione di una perdita inattesa e troppo repentina per venir metabolizzata o annegata nella tristezza di questo presente. Dunque, meglio chiudere qui. E almeno per oggi, lasciare che siano la sua musica e le sue canzoni a ricordarlo e a mantenerlo ancora vivo nei nostri cuori e nei nostri pensieri.

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