Goodbye, grande Pete

Con Pete Seeger se n’è andato un pezzo fondamentale della cultura americana del Novecento. Guida e ispiratore di una nuova generazione di artisti convinti che le canzoni servissero a veicolare non solo emozioni e sentimenti, ma anche idee e valori di giustizia sociale
Usa

Ci ha lasciati per sempre qualche giorno fa, senza far rumore, come in fondo era sempre vissuto. Più che un cantautore, Seger è stato il padre e il maestro di tutti i moderni menestrelli del folk (da Dylan e Joan Baez, fino a Springsteen che gli dedicò un intero album); ma il buon vecchio Pete è stato e resterà anche molto altro: la voce più pura del pacifismo e delle lotte per i diritti civili delle minoranze, un’icona libertaria, il nume tutelare delle radici più autentiche del sogno americano, il prototipo dei moderni ambientalisti, il meno aristocratico di ciò che un tempo si definiva un “cantautore impegnato”.

Un marxista dichiarato e con tanto di tessera comunista, in un'America agitata dalle isterie del maccartismo e dalle inquietudini della Guerra fredda. Ma va pur detto che le sue canzoni han sempre trasceso le ideologie, non a caso sopravvivendo quasi tutte con intatto fascino e una certa ironia al loro tracollo.

Novantaquattro anni vissuti con intensità e passione assoluta, ma senza il corredo di bizze e strafottenze di tanti colleghi dotati di minor talento, ma di maggior popolarità.

Era nato in una famiglia di musicisti, nel 1919 in un paesino vicino a New York, e l’incontro col grande folk-singer Woody Guthrie, verso la fine degli anni Trenta, gli cambiò la vita. Con i Weavers, che fondò nel 1948, s’inventò un nuovo modo di dar voce alle speranze e alle inquietudini di una generazione del tutto inedita, e certo infinitamente diversa da quelle che l’avevano preceduta. La progressiva popolarità del folk-revival che conquistò la ribalta giovanile fin dai primissimi anni Sessanta, lo trasformò in un punto di riferimento imprescindibile. Brani come Goodnight Irene, If I had a hammer (che arrivò qui in Italia come Datemi un martello per l’ugola ruggente di una giovanissima Rita Pavone), e le immortali Wish All Overcome e Where have all the flowers gone diedero le ali a sentimenti universali e ancora oggi inalienabili. Perfino una diva austera come Marlene Dietrich ne restò ammaliata.

Passato il momento d’oro – quando i grandi del pop-rock cominciarono a saccheggiare e a fare montagne di soldi col suo repertorio – il tenero Pete finì sempre più ai margini del music-business, onorato dagli allievi, ma sostanzialmente bistrattato dai mercati. Eppure ha continuato ad esserci e non ha mai mancato all’appello quando c’era da battagliare per una giusta causa, per difendere i più deboli o denunciare le malefatte della finanza e della politica; e lo ha fatto fin quasi all’ultimo, anche a fianco degli attivisti di Occupy Wall Street.

Ci lascia una cinquantina di album: volutamente poveri negli arrangiamenti, rigorosamente acustici, e tutti pervasi da quella sobrietà quasi monastica che è tipica di chi scrive e offre canzoni non per arricchire, ma per una specie di vocazione.

Facile dire che ci mancherà, più difficile sperare che dal suo stampo se ne ricavino altri…

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