Gomorra, una fiction di successo da non imitare
Roberto Saviano ha dichiarato più volte che Gomorra è nata fin da subito per essere una “serie senza il bene”. Anche in questa seconda stagione l’obiettivo è far misurare il pubblico con il male in modo assoluto e totalizzante, senza la mediazione di figure positive per cui fare il tifo. In Gomorra non troviamo infatti uomini delle forze dell’ordine che siano protagonisti o personaggi che riescono a ribellarsi alla spirale di violenza nella quale sono cresciuti. La serie-denuncia cerca di descrivere il male dall’interno, nella convinzione che esso vada raccontato per ciò che è, senza filtri e con estremo realismo.
Come già scritto in altre occasioni, Gomorra, da un punto di vista della realizzazione, è una serie ben fatta, che ricorda le grandi produzioni internazionali, ma che allo stesso tempo si fa portatrice di una specifica identità italiana. La fiction, nonostante sia ambientata nella lucente Campania, è caratterizzata da luci fredde e cieli senza sole, che si mescolano alla bruttezza e al grigiore delle Vele di Scampia. Le scale e gli androni dei palazzi sono squallidi, imbrattati di scritte, sporchi. Gli interni invece sono volgarmente barocchi, con grandi schermi televisivi, cornici dorate e tavole dove si mangia soli, in silenzio, con la pistola appoggiata accanto ai piatti, pronta all’uso.
Tra una porta d’ingresso e l’altra, i pianerottoli diventano piccole cappelle con altarini innalzati alle madonne e ai santi, ma chiusi da cancelli e lucchetti, come in prigione, perché non ci si può fidare di nessuno, neanche del vicino appartenente al medesimo clan camorristico. Gli uomini di Gomorra portano visibili croci al collo e accendono ceri votivi, mentre il rosso del sangue imbratta i marciapiedi, i corpi mutilati e i volti senza più fisionomia. Nel mondo di Gomorra chi subisce un torto si vendica, spesso attraverso la legge del contrappasso. Chi sospetta dell’altro, uccide, senza il beneficio del dubbio. Vige la prepotenza, che si arroga il diritto di decidere della vita altrui, senza che nessuno si possa ribellare.
Mentre un pubblico mediamente acculturato e consumatore di serie televisive riuscirà certamente a codificare, attraverso i contrasti e i simboli, l’orrore del male rappresentato dalla fiction, non è scontato che tutti gli spettatori sappiano riconoscere il coinvolgimento dovuto alla finzione mediatica, ditinguendolo dal fascino della rappresentazione del male stesso. Costantemente in bilico tra la necessità di raccontare il male e il rischio di mitizzarlo, Gomorra è una serie estremamente delicata e proprio per questo diventa cruciale la responsabilità mediatica di chi propone, sponsorizza e sostiene la produzione.
Trovare sul sito di Sky Atlantic o sui canali social della serie, articoli e post sul look dei protagonisti, le coppie di criminali più affiatate o le frasi cult da utilizzare nella vita di tutti i giorni (“Ti serve una risposta? Te la dà Gomorra”), risulta in contrasto con le varie dichiarazioni apologetiche a sostegno del progetto. Saviano polemicamente obietta che bisognerebbe a questo punto vietare anche Shakespeare per non incentivare al complotto, alla follia, al suicidio o l’Iliade per le sue passioni forti, pericolose e violente.
Qui non si tratta di demonizzare la serie in quanto tale, ma di non perdere di vista il fatto che Gomorra fa riferimento a una realtà presente, ancora oggi protagonista di efferati fatti di cronaca e crimini atroci e che proprio per questa sua attualità è più facilmente imitabile ed elevabile a modello. Ci sono ragazzini minorenni che crescono tutt’oggi proprio all’interno del contesto socioculturale descritto da Gomorra e che sognano di prendere in mano al più presto un’arma, per diventare anche loro dei capi potenti e “rispettati” come Ciro, Gennaro e don Pietro Savastano. Per questo è responsabilità dei media vigilare affinché il male venga percepito come tale e non innalzato a stile di vita a cui aspirare, mostrando al tempo stesso che un altro modo di vivere è possibile.