Golfo Persico: milioni di lavoratori tornano a casa
Da più di un anno, ormai, sperimentiamo a livello mondiale le conseguenze del Covid-19. La pandemia ha significato perdite ingenti di vite umane ma anche conseguenze economiche a livello mondiale, sebbene a fronte di guadagni stratosferici di alcuni settori che hanno tratto un inatteso e consistente vantaggio dall’imprevista ondata pandemica. Un terzo elemento di grande preoccupazione riguarda il futuro delle attuali giovani generazioni che, con mesi di isolamento, si troveranno con notevoli problemi di adattamento sociale che emergeranno nel corso dei prossimi decenni.
Fra le conseguenze economiche ma anche sociali che il virus ha provocato e di cui si parla poco, sebbene abbiano già e avranno ancora un grosso impatto a diversi livelli, è la crisi procurata fra i lavoratori stranieri impiegati nel Golfo Persico. Dagli anni Settanta del secolo scorso, gli Emirati Arabi ed i Paesi della penisola arabica sono stati delle vere calamite di lavoratori stranieri: filippini, indiani, pakistani, egiziani, libanesi ma anche provenienti da Europa e Nord America.
Il ventaglio di impieghi offerti è stato molto ampio: dalla manovalanza più bassa che sfiora la schiavitù a contratti milionari nel campo delle finanze. La presenza di questi lavoratori non ha cambiato solo i Paesi del Golfo Persico, che hanno conosciuto, grazie al petrolio, uno sviluppo stellare, ma anche le nazioni di provenienza di questi lavoratori. Le rimesse di chi lavorava in Kuwait, Bahrain, Emirati, Qatar e Paesi circostanti sono diventate una fonte di reddito non solo per gli interessati ma anche per le loro famiglie nei Paesi di provenienza e, in fin dei conti, per le casse dei rispettivi governi. Il fenomeno è particolarmente evidente nelle Filippine, ma anche in Pakistan, Bangladesh e India.
Proprio in riferimento alle persone provenienti dal sub-continente indiano, molti trovavano impiego nella zona del Golfo ai livelli più bassi, ma forse altrettanti in settori con contratti ben più ricchi. La crisi covid ha però cominciato a farsi sentire, e non poco. In particolare, lo stato del Kerala, nel sud-ovest dell’India, che da decenni ha fornito manodopera specializzata a diversi Paesi del Golfo (per esempio infermiere), si trova oggi a vivere la grande onda di ritorno di molti lavoratori e lavoratrici che, a causa della pandemia, hanno perso il lavoro. In tutti i Paesi della penisola arabica, infatti, la risoluzione di un contratto di lavoro significa anche la perdita del permesso di soggiorno e, quindi, obbliga al rientro in patria.
Si calcola che negli ultimi dieci mesi il numero di persone rientrate dagli Emirati Arabi nel solo stato indiano del Kerala superi il milione di lavoratori. Fino al 2019, e per molti anni, lo stato del sud-ovest dell’India era il punto di partenza di quasi la metà dei sei milioni di lavoratori che il gigante asiatico forniva in media agli Emirati. Statistiche recenti dicono che nel 2018 in Kerala è arrivato circa il 19% dei 78,6 miliardi di dollari trasferiti in India dai lavoratori d’oltremare. Negli ultimi mesi, tuttavia, la perdita di lavoro, contratti e permessi di residenza, ha causato quella che si potrebbe a ragione definire la più grande migrazione di ritorno verificatasi dagli anni Settanta del secolo scorso. I lavoratori che sono stati colpiti più fortemente sono quelli che operavano come collaboratori domestici, nel settore delle costruzioni e in quello della ristorazione (camerieri e cuochi).
Ritorni forzati di massa stanno sconvolgendo la vita di migliaia di famiglie ma anche distruggendo prospettive future di imprese e amministrazioni locali che contavano da decenni sulla circolazione di denaro proveniente dall’estero, che aveva facilitato non poco anche la nascita e lo sviluppo di iniziative sul territorio permettendo una notevole crescita generale dello stato.
Ovviamente non si tratta del primo fenomeno di ritorno dal Golfo Persico verso il Kerala. Le guerre del Golfo di alcuni decenni orsono avevano già causato problemi simili, soprattutto dal Kuwait, e così pure la crisi finanziaria del 2008. I numeri dei ritorni, tuttavia, sono oggi ben più consistenti e le prospettive piuttosto scoraggianti.
Si tratta, in realtà, solo di uno dei fenomeni che hanno impattato sullo stato socio-economico del gigante indiano che, con la crisi covid, ha visto crescere il numero dei poveri al suo interno di 75 milioni. Il problema colpisce decine di migliaia di famiglie ma anche la crescita economica che le loro rimesse dall’estero assicuravano alla zona di provenienza.