Golden boys: dietro le leggende di Liverpool…
Il “mago” ribalta la storia
A Kiev, nella finale dello scorso anno di Champions League persa contro il Real Madrid di Cristiano Ronaldo, mister Jurgen Klopp lo aveva promesso: «Ci riproveremo l’anno prossimo». Conoscendo il personaggio, la cui magistrale capacità di lettura tattica è proporzionata alla simpatia scanzonata e alla dialettica spontanea, c’era poco da dubitarne.
“Il mago” stratega, motivatore e pianificatore pluriennale di un gruppo memorabile per il connubio di forza, carattere e tecnica, si presentava al gran galà del calcio giocato con il poco lusinghiero appellativo di “mister sei finali perse”. In effetti, sebbene prima dello scorso 1 giugno avesse inanellato una serie di amarezze al fotofinish con un giovane e sorprendente Borussia Dortmund, otto anni fa, e con il Liverpool negli ultimi due anni, ai più esperti non sarà sfuggito come non sia mai partito per favorito, né in Germania né in Inghilterra, cucendo comunque delle encomiabili trame sportive.
Anche se nel calcio, parafrasando il grande Enzo Ferrari, spesso «i secondi valgono solo come i primi degli ultimi», Klopp non ha mai derogato rispetto alla sua determinazione caratteriale e ai suoi convincimenti in merito alla sua idea originale ed emancipata di intendere il calcio: «Non lavoro per essere orgoglioso di me. Mia madre deve esserlo», ripeteva in quegli anni in cui incantava i tifosi pur non sollevando trofei, ma istituendo un metodo encomiabile a Dortmund. «Siamo gli unici che possono andare da un ragazzo di talento a promettergli che da noi crescerà in un ambiente stabile, con lo stesso allenatore. Questo è il messaggio. Responsabilità degli uni verso gli altri. Se perdi 10 partite di fila altrove pensano sia normale cambiare. Qui no. Eppure, se il Borussia cercasse un nuovo allenatore, arriverebbero a piedi dalla Cina. Questa responsabilità vale anche per me. Il Borussia sa che se mi chiama il Real Madrid, io resto qui».
Un allenatore eccentrico, ma libero da stereotipi e influenze di un ricchissimo business, che non si è mai nascosto: «Ho firmato perché a Dortmund nessuno mi chiede della barba, di come vesto, di come parlo in tv. Parliamo solo di calcio», dichiarò in conferenza stampa nonostante le offerte di tanti “top club”, senza bisogno di giustificarsi e marcando anche una filosofia di stile e gioco ben diversa da altri colleghi della panchina. «Altri allenatori sono dei baronetti, portano la giacca, fanno l’inchino. Io metto la tuta e schiaccio il cinque. Loro fanno suonare i violini, il mio calcio è heavy metal: c’è chi dirige la squadra come un’orchestra, fanno possesso palla, i passaggi giusti, ma è come una canzone silenziosa. A me piace vedere il pallone di qua, di là, le parate dei portieri, pali, traverse, noi che voliamo dall’altra parte. Devo farmi sentire dai miei, voglio una squadra che faccia ‘bang’».
E dallo scorso finesettimana, neanche la spietata definizione di “mister secondo” varrà più per Jurgen Klopp da Stoccarda. Ora il modello è lui, anche non volendolo: l’alchimista tedesco, già oggetto del desiderio di tutti i maggiori club al mondo, ha mantenuto la parola, portando il suo Liverpool sul tetto d’Europa per la sesta volta nella propria storia, vincendo peraltro una Champions League che passerà agli annali come la più spettacolare, ricca e competitiva di sempre, pur escludendo la finale stessa, sulla quale hanno pesato tensione, caldo e stanchezza.
Dietro i big di uno squadra da “bang”
La città dei Beatles, festante, sembra cucita addosso non solo a un personaggio sui generis come Klopp, ma a un collettivo che assembla una serie di storie umanamente intriganti, che vi racconteremo più in dettaglio su Città Nuova nel prossimo numero della nostra rivista.
Al di là delle curiose entrate in scena di “riserve” di lusso come Wijnaldum e Origi, uomini della provvidenza calcistica per caso, in grado di decidere proprio semifinale e finale entrando al posto di titolarissimi clamorosamente acciaccati nel momento più importante, a passare agli archivi della più blasonata storia del calcio che fa tappa a Liverpool saranno figure come la colonna Van Dijk, giovanotto abbandonato dal padre e costretto a lavorare a 3 sterline l’ora per poi allenarsi di notte, divenuto oggi il difensore più forte e quotato al mondo; come il centravanti Firmino, strappato alla gang criminali delle favelas e salvatore di due bimbi meno di due anni fa; come le funamboliche ali Mané e Salah, volti di un’Africa poverissima, ma che non ha mai perso la fede e la passione per salire sul tetto del mondo.
Come “sir” Andy Robertson, che qualcuno si era affrettato a bollare come “troppo piccolo per giocare al calcio”, non sospettando che un giorno sarebbe diventato il terzino mancino più invidiato d’Europa e il capitano della nazionale di Scozia. Sono tornati a gridarlo in tanti, più volte in questa Champions League 2018-19: “succede solo ad Anfield”. E probabilmente avevano ragione… vi spiegheremo presto perché.