Globalizzazione e politica
L’erosione della sovranità statuale è una delle tematiche centrali della globalizzazione, ma non sempre le analisi giungono alle medesime conclusioni.
La globalizzazione, in effetti, è un fenomeno pluridimensionale, e in una prima approssimazione sociologica essa può essere definita come il moltiplicarsi di connessioni transplanetarie tra le persone. Inoltre la globalizzazione è un fenomeno controverso: riguardo alla sua natura, alla sua origine, ai motivi che stanno alla base del suo sviluppo, ai cambiamenti da essa prodotti rispetto all’autogoverno e alla democrazia, ai soggetti che ne traggono vantaggio, alla sua “giustizia”, alle politiche più adatte a governarla.
Dal punto di vista economico, la globalizzazione è definita come «la partecipazione sempre più intensa di soggetti sempre più numerosi e diversi alle relazioni di mercato su scala sempre più vasta». Si tratta di una definizione che pone l’accento sulla dimensione di mercato della globalizzazione, e che si completa con il riferimento alla transnazionalizzazione e denazionalizzazione dei flussi finanziari. Questa tendenziale apolidìa del capitale come si rapporta all’articolazione del potere statuale, per definizione territorialmente circoscritto?
Mentre «il sistema economico internazionale viene ad acquistare un’autonomia della quale, almeno nel XX secolo, non aveva mai usufruito», lo Stato moderno vive una «crisi territoriale», aggredito com’è da «forme di localismo, decentramento e federalismo fiscale, che mirano a delegittimare i poteri centrali a favore di forme di democrazia periferiche che dovrebbero anche meglio corrispondere ai progetti macroregionali».
Esisterebbe, così, una relazione diretta tra planetarizzazione dell’economia e crisi dello Stato. Più radicalmente, quest’ultimo «sarebbe ormai svuotato dalla perdita dei suoi stessi fini, l’organizzazione di un potere coercitivo entro dei confini, confini che hanno perduto ormai quasi tutto il loro valore, confini ancora più agevolmente scavalcati da flussi finanziari propriamente sconfinati e addirittura planetari, confini comunque penetrati da masse di esuli che fuggono i paesi della povertà, della fame, delle malattie, confini che si vedono sfuggire ogni contenuto di senso storico e lasciano trasparire una questione assolutamente originale: la rappresentanza politica si può ancora porre in termini statuali?».
Si impone, pertanto, un rovesciamento di prospettiva, rispetto alla logica degli ultimi cinque secoli, secondo la quale lo Stato è sempre al primo posto e il “resto del mondo” è definito in termini residuali rispetto a esso. «Il nesso – sostiene Bonanate – dovrà quindi venire sovvertito e rovesciato: dal mondo agli Stati (e non viceversa), revocando in dubbio non tanto che la più funzionale forma di organizzazione dei rapporti interindividuali sia quella statuale, ma che essa offra una sistemazione logicamente superiore a ogni altra». In realtà, oggi «mettere in discussione la sovranità non è scandaloso, ma addirittura l’unico modo per agganciare l’odierna istituzione statuale al procedere della civiltà giuridica internazionale».
Quello che è certo è che oggi esiste un rapporto radicalmente diverso tra dimensione interna e ambiente internazionale. Forse mai come nella nostra epoca il mutamento internazionale ha direttamente chiamato in causa le situazioni interne; specularmente, le tensioni locali e civili si ripercuotono nel sistema internazionale, interrogando la comunità delle nazioni. Un tempo si diceva (nella “narrazione” realista e neorealista delle relazioni internazionali) che gli Stati si sono costituiti sull’ordine interno (Stato di diritto), mentre nell’ambito internazionale vige una sorta di “legge di natura” esemplificata dal prevalere dai rapporti di competizione rispetto a quelli di cooperazione (ed era questo il senso del presunto ordine bipolare o a diffusione limitata di potenza). Politica nello Stato e politica tra gli Stati erano ambiti rigidamente separati. Peggio, la politica internazionale in realtà non esisteva con una vita autonoma: veniva cioè ricavata residualmente una volta definita la larghezza, l’ampiezza e la profondità della politica statuale. «Politica nello Stato e politica tra gli Stati sono apparsi così due dimensioni alternative, per così dire, della vita umana: il bene, il noto, il sicuro, dentro lo Stato; il male, il pericoloso, l’incerto, al di fuori, negli altri»
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In negativo può dirsi che la violenza del sistema internazionale (sia quella in atto che quella potenziale della dissuasione nucleare o equilibrio del terrore) si sia ritratta dall’ambito internazionale e sembra essersi “internalizzata”. Ora il male è dentro più che tra gli Stati; sembra venir meno la stessa ragion d’essere della forma organizzativa dello Stato moderno, e cioè la capacità di realizzare la pace tra i cittadini.
L’unica plausibile ricostruzione dell’idea di ordine consiste nell’«ammettere che anche quella internazionale sia politica, riconoscere che ogni politica esprima dei valori, acconsentire che il confronto tra questi ultimi si sviluppi più grazie al dibattito che allo scontro, comprendere che la migliore tecnica di dibattito finora sperimentata è quella democratica, la cui virtù politica, che prevale persino sulla sua portata procedurale, è rappresentata dalla tolleranza». Conclusione, se vogliamo, minimalista e riduttiva rispetto al senso profondo della domanda solidaristica e partecipativa delle unità politiche ai loro diversi livelli di articolazione, ma che cionondimeno rappresenta un superamento dei compartimenti stagni interno/esterno.
Da Pasquale Ferrara, La politica inframondiale, le relazioni internazioni nell’era post-globale (Città Nuova, 2014)