Globalizzati e liberi: possibile?
Flussi migratori in aumento e invasioni di merci a prezzi irrisori. Squilibri ambientali gravidi di conseguenze e mancata tutela dei diritti umani. Tecnologia e ricerca in accelerazione, politica ed etica in affanno. Stiamo andando veloci, ma non sappiamo dove, aveva ammonito già qualche anno fa David Saxon, allora rettore del Massachusetts institute of technology (Mit), prestigioso centro di studi avanzati dell’università di Boston. Ciò che affliggeva lo studioso statunitense non erano le sorti dell’organismo da lui diretto ma le prospettive dell’intero pianeta. L’umanità, soprattutto quella dei paesi più sviluppati, sta vivendo un tempo di profondi cambiamenti. Secondo il noto sociologo Zygmunt Bauman, le forme tradizionali che hanno modellato vita sociale e cultura, che hanno informato istituzioni politiche ed economiche, si sono liquefatte. Comprese quelle religiose. Viviamo in un contesto di continuo cambiamento. Per Arjun Appadurai, altro studioso di scienze sociali, la mobilità delle persone, dettata dalla necessità o da scelte professionali, e la mobilità dell’immaginazione, legata allo sviluppo dei mass media, stanno dissolvendo i punti di riferimento di un tempo e disarticolano le identità tradizionali. Per questo, quasi come una provocazione, i due parlano di modernità liquida e di modernità polverizzata. Il disorientamento tra la gente si è fatto palpabile. Dove stiamo andando? , si chiedono tanti, tra consapevolezza e impotenza. Non basta più un’analisi solo quantitativa dei fenomeni odierni. Ora è necessario ricorrere anche a parametri qualitativi, esordisce mons. Vincenzo Zani, specializzato in sociologia all’università Gregoriana di Roma, già docente a Brescia, e ora sottosegretario presso la Congregazione per l’educazione cattolica della Santa Sede. Il fenomeno della società complessa, ad esempio, ha caratterizzato soprattutto gli anni Ottanta e ad esso si sono presto aggiunte altre sfide, come quelle della globalizzazione e, più recentemente, del cosmopolitismo, dovuto alle migrazioni. Questi mutamenti stanno intaccando l’impianto stesso delle nostre società, toccano gli elementi di fondo della convivenza e arrivano a condizionare la singola persona anche nella sua libertà interiore. Da qui la necessità di un approccio qualitativo per interpretare i cambiamenti sociali in corso. Quali sono i maggiori rischi dovuti all’attuale stadio della globalizzazione? Prima di tutto, una nuova forma di competizione, ignota alle epoche precedenti e che genera insicurezza. Mentre, storicamente, la creazione di nuova ricchezza, portando con sé un generale miglioramento delle condizioni di vita, tendeva a ridurre l’incertezza esistenziale dei singoli e delle collettività, la transizione in atto ci pone di fronte ad una società in cui la produzione di incertezza pare connessa alla produzione stessa di ricchezza. Questa sindrome dell’incertezza è diventata una malattia sociale, riscontrabile soprattutto fra le giovani generazioni. Un secondo rischio concerne la minaccia ai cosiddetti diritti sociali di cittadinanza, cioè di benessere misurato in termini di assistenza, previdenza sociale, accesso all’istruzione, eccetera. Il mercato globale del lavoro spinge le imprese a spostare i propri centri produttivi là dove il costo del lavoro è più basso, con inquietanti gare al ribasso nelle materie dello stato sociale e mutamenti delle regole del gioco economico. A proposito di regole del gioco, la democrazia non sta rischiando uno svuotamento? La globalizzazione sta sottraendo potere economico e finanziario allo stato nazionale, compromettendone l’autonomia e l’equilibrio interno creatosi tra le diverse classi sociali. La minaccia alla capacità dei governi di esercitare la loro sovranità interna si trasforma perciò in minaccia alla democrazia stessa. Lo si coglie nella diminuita fiducia verso le istituzioni democratiche. Così la globalizzazione crea una situazione paradossale: mentre, da un lato, consente l’espansione della democrazia nei territori in precedenza non da essa toccati, dall’altro, rivela i limiti delle strutture democratiche ai cittadini dei paesi di antica democrazia, che sembrano disillusi nei suoi confronti. Crede possibile rivitalizzare le democrazie occidentali? Occorre sviluppare le istituzioni attuali in modo che siano in grado di rispondere alle nuove esigenze della società globale. La democrazia, infatti, è come un contenitore che deve essere riempito di partecipazione, anzitutto, e poi di valori. Oggi, invece, essa si dimostra bloccata, formale, mancante di strumenti adatti al governo dei problemi divenuti planetari, ed anche carente nei contenuti della partecipazione. Una democrazia matura esige un ripensamento profondo e una capacità creativa non indifferente per produrre ed attuare nuove forme, nuovi strumenti, sia globali, sia locali, e soprattutto sollecitare nei cittadini il gusto e l’entusiasmo per la politica in quanto arte del governo della città. Un compito non facile, eppure inevitabile e urgente. Le migrazioni offrono alla democrazia nuove opportunità o ulteriori ostacoli? Rispetto al passato, la novità determinata dallo spostamento di milioni di persone può essere vista nel fatto che questi gruppi oggi emergono come soggetti, chiaramente identificati alla propria cultura, e non più semplicemente come oggetti passivi di colonizzazione, sfruttamento o dominio. Si pongono, così, le questioni della diversità e del pluralismo che sono tipiche di una società multietnica. Il diffuso pluralismo culturale viene ritenuto una conquista della nostra civiltà, frutto di molti fattori, quali la tolleranza, la libertà di espres- sione, la democrazia, il riconoscimento della dignità di ogni persona. Non tratteggia un quadro un po’ troppo positivo? Guardi, il pluralismo culturale spesso postula una rigida separazione tra sfera pubblica e sfera privata della vita. La sfera pubblica è regolata da leggi comuni universalmente accettate, mentre quella privata è il luogo della libera espressione delle differenze. È evidente che, in tale contesto, possono nascere facilmente dei conflitti, come le cronache riportano. Si tratta, allora, di individuare le modalità che consentano di tenere insieme una società culturalmente sempre più eterogenea, indicando princìpi e norme che disciplinino la convivenza tra soggetti diversi all’interno di una medesima configurazione storico-sociale. Dal pluralismo culturale al relativismo etico il passo però è breve. La società complessa e globalizzata ha reso incerto, evanescente il quadro dei valori e delle norme che dava senso e significato alle scelte morali e costituiva fondamento e ordine della convivenza. Gli schemi sono saltati e ci troviamo in una società senza ‘centri’ in cui ognuno è chiamato a costruire e ad elaborare soggettivamente i propri cardini di condotta, seguendo solo la propria coscienza. Questo fenomeno viene definito relativismo morale. Siamo di fronte a una pericolosa sindrome di immuno-deficienza spirituale acquisita dalla cultura e dalla mentalità del nostro tempo che distribuisce concezioni deviate dell’uomo, della donna, della vita, dei rapporti, e diffonde una mentalità capace di svuotare dall’interno i valori. Siamo più liberi o meno liberi? La modernità ha affrancato gli uomini da molte dipendenze, ma oggi l’individuo si sente perso, perché slegato da ogni vincolo. Dal punto di vista sociologico, si nota un paradosso: quello di vedere estendersi una società individualizzata. Infatti, mentre si diffonde la tensione alla globalità, in essa, come sottolinea Bauman, i legami diventano sempre più fragili e volatili, difficili da alimentare per periodi prolungati, bisognosi di una vigilanza continua. Come allora umanizzare la globalizzazione? La globalizzazione non può essere sganciata da una dimensione umanistica e comunitaria al tempo stesso. Occorre, perciò, innestare in essa un progetto culturale che qualifichi i processi all’insegna dei valori di equità e di solidarietà, che siano garantiti dal diritto internazionale e guidati da un governo con poteri reali sul piano planetario. Attraverso il paradigma della fraternità, anche le tendenze globalizzanti, che prima abbiamo presentato nei lati problematici, possono essere misurate e valutate nel loro significato pieno e nella loro valenza positiva. Fraternità e globalizzazione. Approfondisca la relazione. Un esempio, quello dei diritti umani. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, all’articolo 1, fa riferimento esplicito al principio della fratellanza. Esso, tuttavia, non ha mai trovato una concreta applicazione giuridica. Nel contesto odierno, anche i diritti dell’uomo vengono sottoposti a critica per il loro carattere eccessivamente occidentale. In discussione non è il fatto che ci siano dei diritti dell’uomo in quanto tali, ma che essi siano proprio quelli, e solo quelli, formulati nella dichiarazione dell’Onu. Un approccio che ha fatto il suo tempo? Direi piuttosto che si tratta di rileggerli insieme, attenti, però, a cogliere questa nuova sensibilità diffusa per evitare fenomeni quali i fondamentalismi e le conflittualità etnicoreligiose. Di qui, la necessità di riconsiderare i diritti dell’uomo nella prospettiva della fraternità universale, non tanto per giungere ad un azzeramento del dato attuale – la qual cosa sarebbe assai pericolosa -, ma per immaginare un suo sviluppo, sia in estensione che in profondità. E per quanto riguarda i diritti dei popoli? Anche qui può venire in soccorso il principio della fraternità. Per creare una nuova base di convivenza e di dialogo tra popoli e culture, è necessario promuovere un nuovo ordine che abbia una dimensione mondiale capace di integrare le diverse espressioni culturali, politiche e religiose, e che, allo stesso tempo, abbia come obiettivo quello di creare regole e strumenti per una libera e piena convivenza. In questa prospettiva, è urgente la riforma dell’Onu, in modo che sia in grado di tenere insieme il governo mondiale e gli spazi di giusta aggregazione territoriale . Quale ruolo per la società civile? È fondamentale rispondere alle sfide della globalizzazione promuovendo la società civile, secondo una visione unitaria del mondo. Occorre allora sviluppare rapporti transnazionali che sappiano valorizzare le diverse espressioni locali. Questo può avvenire applicando il principio di sussidiarietà orizzontale e consentendo alle organizzazioni della società civile di andare oltre i meri compiti di tutela e di denuncia, per assumere ruoli ben definiti di presenza politica. Ruoli che sono consoni a questi organismi, ma che vanno riconosciuti e salvaguardati sul piano del diritto internazionale .