Gli zombi della rivoluzione

Èmolto difficile leggerle. Ma si va avanti lo stesso, per onestà; è certamente costato molto di più scriverle. Non parliamo dell’averle vissute. Sono storie delle vittime della violenza politica, raccontate da chi ne è uscito vivo o dai famigliari di chi è caduto (1). Proprio quell’estate, Patrizia si diplomò: quanta vita possono racchiudere poche parole! Le pronuncia Lia Serravalli: la strage di Bologna le portò via due figlie e la sorella; suo padre si tolse la vita più tardi, estrema protesta di un galantuomo contro uno Stato che non trovava colpevoli. Anna Di Vittorio, insegnante elementare; alla stazione di Bologna perse un fratello, Mauro; Gian Carlo Calidari vi lasciò un amico, Sergio; Anna e Gian Carlo si sono conosciuti ad un incontro dei famigliari delle vittime: Avevamo voglia di capire, io e Anna. Così ci siamo innamorati e ci siamo sposati. Il mio treno veniva da Roma; andavo su dai miei insieme alla mia fidanzata e a sua sorella: ero militare: la prima licenza dopo sette mesi. Il treno fu fatto fermare fuori dalla stazione: la bomba era appena esplosa. Bologna era tramortita, tra gente disperata, ammutolita; era giorno di partenza per vacanze che, d’improvviso, perdevano senso. Grandi e piccole storie di vita; vite cambiate da quello strano fenomeno che fu il terrorismo italiano: un’espressione che evoca un grande calderone con dentro tutto; le differenze, invece, vanno rispettate; non ci fu solo il terrorismo delle bombe; bisogna capire. Uno che ci provò fu Walter Tobagi. Un uomo che mi sarebbe piaciuto conoscere; non ho fatto in tempo. A 23 anni aveva scritto una storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia; libro introvabile, oggi (ma fu difficile anche allora: edito da Sugar nel 1970), intelligente, segno di una curiosità che afferra la storia dalle pieghe, e le percorre per scoprire il non ovvio. Il giudice Alessandrini fu ucciso il 29 gennaio 1979; Tobagi annotava nel suo diario: Per l’assassinio di Emilio Alessandrini non valgono più le regole di un anno fa, nel mirino ora entrano proprio i riformisti, quelli che cercano di comprendere (…). Mi pare di essere (forse per autosuggestione) il giornalista che come carattere e come immagine è più vicino al povero Alessandrini. Primo Moroni, della libreria Calusca di Milano, mi diceva in quegli anni: Ho sentito di Tobagi dalla radio. E l’ho subito considerata una enorme stupidaggine. Tobagi era uno dei pochi che cercavano di capire. Veniva anche qui da me, o mi telefonava, voleva rendersi conto prima di scrivere i suoi articoli. Se ammazzano proprio quelli con i quali si potrebbe parlare…. Scrive oggi la figlia: Nei Demoni, Dostoevskij mostra come l’autore di un omicidio o un delitto politico possa rivelarsi una persona piccola, meschina, limitata, superficiale. Profondamente disturbante. È la sensazione che ho avuto di fronte agli assassini di mio padre, sono persone assolutamente incommensurabili con l’enormità del loro gesto. L’intelligenza della vita Benedetta Tobagi sottolinea uno degli aspetti più sconvolgenti che emergono dalla storia del terrorismo italiano: l’infinita distanza tra l’intelligenza e la stupidità. E non parlo dell’intelligenza professionale, degli intellettuali; parlo dell’intelligenza della vita, quell’amore quotidiano della gente comune che è intelligente perché – pur nel piccolo – vede il bisogno dell’altro – del figlio, del fratello – e vi provvede; è l’intelligenza che fa crescere e mette in condizioni di scegliere, di essere liberi; di contestare e fare politica, di costruire. Di contro, sta la stupidità della morte, intesa nel senso della stupidità che assume le apparenze del pensiero e che giustifica politicamente l’omicidio; è la stupidità dell’ideologia, che vorrebbe convincere che ammazzare è inevitabile, che esiste una necessità storica del male e che compierlo è un dovere. Questa scelta tra vita e morte, tra intelligenza e stupidità, è primaria, precede tutte le altre e ne è condizione; essere umani implica prima di tutto, per tutti, la scelta per l’intelligenza, sul modo, sul come; poi, sul che cosa si può discutere. Abbiamo avuto alcuni episodi recenti che ripropongono questa evidente – eppure estrema – differenza. A Milano, il 25 aprile, si sono sentiti slogan a favore delle Brigate Rosse; e così a L’Aquila, il 3 giugno, in occasione di un corteo contro il regime di isolamento riservato a certi detenuti nelle carceri. Anche qui, bisogna distinguere: l’antagonismo sociale dalle varie forme di partito armato, coloro che contrastano il carcere duro da quelli che vogliono i brigatisti liberi, ecc. Tutte distinzioni importanti. Resta il fatto della sopravvivenza di un’ideologia che ha fatto gridare, a un gruppo di manifestanti dell’Aquila: più vedove, più orfani, più sbirri morti. I terroristi italiani degli anni Settanta- Ottanta erano portatori di queste forme ideologiche ottocentesche, che mettevano insieme dialettica hegeliana mal digerita e uno sciocco positivismo progressista e pseudo-scientifico. La loro mancanza di senso storico fu tale da scambiare la fine con l’inizio: interpretarono le lotte operaie e sociali della fine degli anni Sessanta come l’inizio di una nuova era rivoluzionaria, mentre erano invece l’ultimo colpo di coda dell’epoca del vapore e del ferro. Pensare di cambiare il sistema con quelle armi era, appunto, stupido. Per questo le ipotesi rivoluzionarie di quel tipo, comprese quelle di cui si servirono i gruppi armati, non erano in grado di capire la realtà: tutta l’area rivoluzionaria fu sconfitta politicamente e militarmente per la propria debolezza intrinseca, non solo per la forza dell’avversario. Parallelamente erano in corso revisioni profonde dell’impianto teorico di tipo rivoluzionario, che spostavano l’analisi dalla fabbrica alla società, e si aprivano allo studio della realtà complessa del mondo post-industriale: versioni molto più aggiornate e spendibili che ancora oggi girano, e che hanno una loro distribuzione e ricezione internazionali (2). Si possono fare le analisi teoriche più sofisticate delle nuove versioni ideologiche: alla fine, c’è un criterio molto semplice per capire se una cultura politica ha un futuro: dipende dal suo rispetto per l’intelligenza della vita e per il senso quotidiano che la vita assume: un’ideologia che ci passa sopra, che ritiene di vedere oltre e contro i piccoli amori quotidiani è, semplicemente, una patologia del pensiero che si aggiunge, anziché curarle, alle patologie del sistema e che tende a diventare una patologia del comportamento. In questo tipo di scelte ideologiche un giovane può mettere un’infinita carica di generosità e di aspettative di giustizia; ma proprio questo rende più atroce la beffa: per queste strade si buttano via degli anni, o delle vite intere. Poi, dopo la sconfitta, è difficile ammettere di avere sbagliato; ecco perché, oggi, vari exterroristi cercano di riciclarsi riproponendosi come modelli di antagonismo, come eroi sconfitti una volta, ma indomiti. Persistono semplicemente perché incapaci di guardare in faccia la loro vita e di vederla, almeno quale è stata finora, inutile se non dannosa, per loro stessi e per gli altri. Dev’essere chiaro che il terrorismo italiano non ha avuto nulla di glorioso, che non ha giovato in nulla al miglioramento del mondo. Non proponiamo, oggi, gli ex terroristi come eroi della giustizia sociale: non dobbiamo loro assolutamente nulla, ci hanno tolto, non dato. Costruire il nemico Al cuore dell’errore ideologico c’è la costruzione interiore dell’idea di nemico; lo esprimeva bene un vecchio libro, Memorie dalla clandestinità (Savelli 1981), recentemente ripubblicato: Cos’è un nemico, se non qualcuno che ti costruisci dentro?; infatti, spiegava l’Anonimo autore, non basta la materialità di una presenza contrastante, per far sì che questa presenza sia un nemico (3). A questo serve l’ideologia: ad interpretare i contrasti, le differenze di interessi e di orientamenti, come conflitti insanabili; l’ideologia crea il nemico, e viene accettata per il bisogno di avere risposte e certezze, anche se sbagliate. Sergio Segio, che fu tra i fondatori dell’organizzazione terroristica armata Prima linea, nella sua introduzione al libro sottolinea proprio quelle frasi, commentando la storia di una lotta armata grigia e seriale che piano piano erose le ragioni che inizialmente l’avevano fatta apparire necessaria e legittima. Segio, persona seria, sa quello che dice, anche perché in lui questo giudizio, che oggi scrive con sintassi piana e comunicativa, ha attraversato percorsi infernali di sofferenza e di conquista dell’intelligenza per arrivare ad essere detto. Nel marzo 1985, dal carcere, mi scriveva questa sua riflessione: La nostra in primo luogo vuol essere una testimonianza di chi è stato interno ai linguaggi della guerra in un’epoca storica in cui un mondo intero fa della guerra il metodo col quale dirimere i conflitti fra le nazioni e nella società, e la principale attività attraverso la quale si decidono quotidianamente e spesso per sempre le sorti di frazioni di umanità. Noi abbiamo imparato che la potenza del linguaggio della guerra è tale da fagocitare le medesime ragioni ideali da cui essa stessa era scaturita. La nostra stessa illusione di piegare il linguaggio della guerra ai bisogni di liberazione, si è risolta nella nostra partecipazione alla riproduzione allargata del ciclo della guerra, perdendo progressivamente per strada quelle stesse aspirazioni da cui ci eravamo mossi (4). Era la presa di coscienza di un fallimento ideologico; l’espressione partecipazione alla riproduzione allargata del ciclo della guerra – significa che si è aumentata la violenza senza ottenere nulla, che si è caduti nella stessa logica del nemico, proprio perché si è usato il suo linguaggio e i suoi mezzi. È la logica del primo terrorismo, ed è la stessa che viene riproposta oggi, per la sua capacità di giustificare qualunque violenza: perché – chiedeva qualcuno alle manifestazioni di Milano e dell’Aquila – considerare gli omicidi del prof. Marco Biagi e del prof. Massimo D’Antona più gravi delle morti sul lavoro o di quelle causate dalle guerre? Lo so anch’io che le morti in cantieri privi di sicurezza o sotto i bombardamenti sono omicidi: ma questo non mi assolve se io sparo a Biagi o a D’Antona; al contrario, mi aggiungo alla lista degli assassini, mi metto al livello del volto peggiore del sistema che voglio combattere. E questo, oltre a essere criminale, è stupido. Non è l’unico accesso alla stupidità (ci sono anche varie forme di stupidità per appartenenza, e non solo per contrasto, del sistema), ma è uno dei più devastanti per se stessi e per gli altri. Infatti queste scelte resero (e oggi rendono) difficile agire politicamente anche agli altri, al grande numero di coloro i quali, pur volendo il cambiamento del sistema, non caddero (e oggi non cadono) nella trappola della violenza. Ed è il rischio che si corre oggi. Allora andò in questo modo: non fu più possibile scendere in piazza perché la stupidità armata lo impediva; ogni appuntamento finiva in uno scontro. Certamente non si può pensare di rinunciare al diritto di manifestare. Ma la manifestazione non è determinante perché non è la sostanza della cosa. Che consiste, invece, nel costruire un mondo diverso da ciò che esiste. Ad esempio, il G8 di Genova del 2001 è ricordato soprattutto per le violenze di strada. Pochi ricordano invece che il raduno dei Grandi fu preceduto da un importante incontro nel quale molte e diverse forze sociali (imprenditori, volontariato, associazionismo, ecc.) misero insieme le loro esperienze ed idee: ne uscirono proposte concrete, lineamenti di una strategia di fraternità perseguita attraverso iniziative di cooperazione in tutti i campi nei quali si manifestano i bisogni: nell’economia, nella sanità e nella scuola, nella cultura e nell’ambiente… Una strategia costruttiva che richiede, per venire messa in opera, scelte di vita generose ed una disponibilità reale a dare la propria vita, certamente non inferiore a quella di chi prende in mano una pistola. Perché, per fare un’impresa dell’economia di comunione, o per cercare di costruire una politica di fraternità quando tutti fanno il contrario, ci vuole molto, ma molto coraggio; e ci vuole, soprattutto, quell’intelligenza della vita di cui il terrorista è privo. (1) Fasanella G., Grippo A., I silenzi degli innocenti, Bur,Milano 2006. (2) Per altri – per il terrorismo etichettato come di destra -, la genealogia era diversa, con venature esoteriche e nichiliste, e meriterebbe un discorso a parte. Questa volta ci occupiamo di fenomeni legati al terrorismo di sinistra. Metto tra virgolette destra e sinistra, perché c’è chi vive in entrambe le posizioni con onore, e non merita di venire accomunato ad assassini. (3) Cairo Editore 2006, p. 66. (4) Sergio Segio, Contributo per una ricerca su Riformismo, sovversione e lotta armata negli anni Settanta. Intervento sulla storia di Prima Linea (dattiloscritto privato, p. 1). Di Segio, oggi, si può utilmente leggere: Miccia corta. Una vita in prima linea, Bur,Milano 2006.

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