Gli Usa traditi dal presidente?
Anche ad Helsinki, come a Singapore, Donald Trump ha continuato a sfidare l’establishment statunitense e le regole tradizionali della politica estera con dichiarazioni e decisioni inattese: i nemici “storici” del Paese hanno ricevuto il suo pieno sostegno a discapito di rapporti delle forze dell’intelligence interna, di inchieste, di sanzioni, di corsa agli armamenti nucleari per Kim Jong Un e di nuova guerra nello spazio cybernetico ingaggiata da Putin. Nella conferenza stampa, seguita all’incontro di 4 ore, il presidente americano si è presentato a fianco dell’omologo russo con un elenco di rimproveri indirizzati anzitutto ai servizi segreti Usa accusati di “caccia alle streghe” per l’inchiesta sulle interferenze della Russia nella campagna presidenziale del 2016, e dopo ai suoi predecessori «per i molti anni di follia e stupidità» che hanno peggiorato i rapporti tra i due Paesi.
Trump ha negato il coinvolgimento di Putin nell’hackeraggio delle elezioni, nonostante venerdì scorso il procuratore generale Muller abbia incriminato 12 russi e due dei dirigenti della campagna elettorale siano agli arresti e proprio ieri una cittadina russa è stata arrestata perché agente segreto “non registrato”. E mentre il presidente russo ammetteva davanti alla stampa internazionale il sostegno alla vittoria di Trump, senza scendere nei dettagli del come, il presidente americano continuava a denigrare Fbi, Cia e Nsa e ad elogiare l’agire di quello che in patria continua ad essere considerato il nemico, nonostante la fine ufficiale della guerra fredda.
Le parole di Trump hanno provocato un terremoto sia nel partito repubblicano che negli apparati dell’intelligence. Un ex ufficiale della Cia ha aspramente criticato le dichiarazioni presidenziali e il presidente della Camera dei rappresentanti, Paul Ryan, ha preso pubbliche distanze da Trump ricordando che «la Russia non è nostro alleato e rimane un Paese ostile ai nostri valori e ideali fondamentali». Il senatore repubblicano John McCain, assente dal dibattito politico da parecchi mesi per una malattia, ha dichiarato con asprezza che «nessun presidente si è così umiliato davanti a un tiranno e il danno inflitto dalle dichiarazioni presidenziali è incalcolabile. Il vertice di Helsinki è stato un errore». L’esibizione mediatica di Trump ha continuato ad alimentare voci e speculazioni su informazioni compromettenti in mano a Putin, utilizzati come arma di ricatto per indebolire la presidenza e la democrazia americana: un copione usato a turno anche dagli Usa per sgretolare dall’interno il sistema sovietico e aprirlo al liberalismo di matrice occidentale.
Il 45mo presidente, incurante delle critiche e degli attacchi, continua comunque a seguire un suo corso nelle relazioni internazionali, decisamente fuori dagli schemi, ma determinato a sbloccare situazioni in stallo per decenni. I vertici russo-statunitensi non sono una novità nella storia dei due Paesi e non è certo il primo presidente a tentare di avviare processi di cooperazione: Clinton ci aveva provato offrendo come modello l’economia di mercato; l’amministrazione Bush aveva incoraggiato il cambiamento democratico interno auspicando risvolti vantaggiosi per gli Usa in politica estera, ma i risultati non hanno fatto altro che accrescere frustrazioni e lamentele bilaterali a cui si sono unite accuse interne di resa e tradimento degli interessi nazionali. Secondo il Carnegie Endowment for International Peace, una rete globale di ricercatori politici, il vertice di Helsinki è da considerarsi una spinta ineludibile al dialogo utilizzando le strategie messe in atto da entrambi i Paesi: i piccoli passi per gli Usa su cui costruire accordi di lunga durata e la visione generale per la Russia, da tradursi in trattati specifici su settori. Il centro di ricerche è convinto che anche i contatti militari tra gli Stati maggiori dei due Paesi per comprendere le azioni in territorio siriano siano state un primo, fragile canale di contatto su cui far leva per aprire altre finestre sulla Crimea, ad esempio, che continua a restare un dietro le quinte oscuro della politica russa e dei piani Nato.
Altro tema scottante restano l’espulsione dei diplomatici russi voluta da Obama e le sanzioni imposte alla Russia, che se da un lato restringono gli investimenti occidentali, dall’altro stanno costringendo Putin a cercare nuovi partner che potrebbero ridefinire la sua posizione globale. E forse la richiesta del presidente americano di riammetterlo nel G7 vuole in un certo senso limitare i rischi di questa espansione o comunque renderli controllabili. Una nuova agenda di contatti dovrebbere includere anche le nuove tecnologie informatiche che possono determinare non solo gli investimenti militari futuri in termini di difesa e di strategia ma anche il controllo dell’opinione pubblica, ampiamente provato dai dossier sfiduciati da Trump e che hanno convinto l’intelligence Usa a non estradare più informatici accusati di sovvertire la politica sovietica e che arrivati in patria venivano ingaggiati segretamente dai servizi russi.
La strada del dialogo quindi è spinosa anche se Trump ha concluso la conferenza stampa chiedendo di concentrarsi sul futuro e non di restare focalizzati sul passato, poichè «siamo le due più grandi potenze nucleari del mondo e dobbiamo andare d’accordo!». Oggi il presidente americano si trova ad affrontare una valanga di critiche interne non solo sul piano politico ma anche su quello diplomatico: durante il colloquio privato con Putin, Trump non ha permesso ad alcun segretario di essere presente e prender nota, mentre il presidente russo aveva al suo fianco un uomo di fiducia che non ha perso nessuna delle dichiarazioni. Di questo vertice, quindi, non esistono verbali ufficiali e i resoconti di “The Donald” rischiano di essere strumentali alle sue politiche e ai suoi incontrollabili tweet.