Gli ultimi minuti

Ti avevo promesso un libro: Prima della fine, di Ernesto Sabato. Volevo regalartelo per Natale, ero sicuro che ti sarebbe piaciuto e magari ti avrebbe aiutato. Un bel libro, davvero. Non potrò mantenere la promessa. Ma non importa, quel libro non ti è più necessario. L’importante è aver fatto in tempo a salutarti. Ti ringrazio, zio, di avermi aspettato. Ci tenevo molto a parlare con te, un’ultima volta. Ho seguito con profonda partecipazione ogni tuo passo, dai primi sintomi della malattia agli esami via via sempre più specializzati; dalle opinioni, in principio contrastanti, dei medici, al verdetto finale ed inequivocabile di un male senza rimedio. Allora ti sei ritirato in casa, tra le persone che amavi e ti amavano. Non potevo starti vicino fisicamente. I milleottocento chilometri di distanza costituivano un particolare geografico non trascurabile. Eppure, mai come in questi due anni sei stato presente. Riprova, questa, di come lo spazio e il tempo non abbiano la facoltà di allontanare le persone, perché le vere distanze sono dentro e non fuori. Così come le vere vicinanze. Di tanto in tanto ti raggiungevo con degli sms, dai contenuti sempre uguali, ma autentici: ti sono vicino, un abbraccio forte, ti penso intensamente. I miei genitori e mio fratello supplivano alla mia assenza fisica. Tra gli esiti vari delle chemioterapie, hai percorso con dignità la tua via crucis. Hai combattuto fino alla fine, come hai sempre fatto nella vita, come hai insegnato a fare ai giocatori che allenavi. “Una partita – dicevi – non è mai chiusa fino al novantesimo minuto”. Condividevo pienamente la tua filosofia calcistica e volevo entrare in campo per giocare con te gli ultimi minuti. Non sapevo quanto tempo mancava alla fine, ma avevo la convinzione che avrei fatto in tempo. Non mi sbagliavo. Sono venuto a trovarti in un pomeriggio d’agosto. Eri seduto sul divano. Quando mi hai visto entrare mi hai accolto con un sorriso, ti sei alzato e mi hai baciato. Per evitare il mio eventuale imbarazzo nel vederti in uno stato avanzato della malattia, hai commentato da solo: “Sono la metà dell’ultima volta che mi hai visto, vero?”. Non c’era disperazione in quelle parole. Era un fatto. Sul tavolino davanti al divano, una pila di libri testimoniava una dedizione costretta ma gradita alla lettura. Senza saperlo avevo scelto bene il mio regalo: una raccolta di poesie scritte sull’autobus. L’hai presa in mano e, dopo averla sfogliata con interesse, hai commentato: “Questo non è un libro come gli altri. Merita di essere letto con calma, in silenzio, da soli”. Abbiamo parlato come se niente fosse. Eri lo stesso di sempre, sensibile ai problemi dell’umanità. Ti sei interessato alla mia vita, ai viaggi in Bielorussia. Ad un certo punto, mentre ti raccontavo la situazione difficile di quel paese, ti sei alzato. Sei tornato poco dopo con una somma di denaro. Mi ha fatto impressione questo tuo gesto. Una persona che sta morendo rischia di chiudersi in sé stessa, concentrandosi solo sulla sua malattia, sul suo dolore. Tu, invece, eri aperto ai problemi degli altri. Gesti così non si improvvisano. Ma più di tutto mi hanno colpito la tua dignità e serenità. A dire il vero, non avevi la faccia del pugile sfinito alle corde. Soffrivi, certo, ma non lo davi a vedere. Desideravo rimanere da solo con te, per dirci certe cose intime. Chiedere ai famigliari di andare in un’altra stanza? Io poi sarei ripartito e non avrei avuto la possibilità di farti visita per i mesi successivi. Avevo la precedenza in fondo. Un privilegio del quale, tuttavia, non volevo approfittare. Così ho parlato a lungo con tuo figlio di studi e progetti. Faceva una strana impressione parlare del futuro, sembrava una cosa irreale. Tutto diventa irreale, di fronte alla realtà irrevocabile della morte. Cercavo di ascoltare con attenzione, non pensando ad altro, sapendo che, se non l’avessi forzatamente cercata, si sarebbe presentata da sola l’occasione per restare da soli. Ad un certo punto, sentendoti debole, sei voluto andare nella tua stanza. Ti ho raggiunto poco dopo. Finalmente il momento che aspettavo. La zia ci teneva molto a questo colloquio. Non avendo ricevuto una formazione religiosa né incontrato una testimonianza convincente di fede, non eri una persona vicina alla chiesa. Eri credente, ma a modo tuo. Credevi nei grandi valori dell’uomo: la giustizia, la pace, la solidarietà. Non ci credevi solo. Hai vissuto con coerenza da buon padre, marito fedele, allenatore professionista, spargendo intorno a te affetto, meritandoti la stima e il rispetto dei colleghi. Mi piaceva come insegnavi ai giocatori a non arrendersi, a saper soffrire, a combattere fino alla fine. “Così si formano persone tutte di un pezzo”, mi dicevi. Ed eravamo pienamente d’accordo, perché anch’ io, in modo diverso, mi impegno a formare uomini nuovi. Ma Dio, c’era o non c’era nella tua vita? Una volta, ad un amico che ti parlava di lui come Amore, dicesti: “Ad un Dio così crederei anch’ io”. Prima di incontrarti, avevo pensato alle suore di Madre Teresa di Calcutta, alle loro case per i moribondi. Lì, gli indù ricevono tra le labbra qualche goccia dell’acqua del Gange. I musulmani ascoltano un versetto del Corano. I cristiani sono unti con l’olio santo. Per quelli che non hanno hanno una fede religiosa, c’è il volto di una missionaria della Carità, chino su di loro a testimoniare l’amore di Dio per tutte le sue creature. Ed avevo capito cosa ti avrei detto. “Da due anni prego per te tutti i giorni”. “Lo so e ti ringrazio”. “Sono ammirato nel vedere con quale dignità e serenità affronti questo periodo della tua vita”. “Ti confesso che la serenità a volte mi manca”. “Non è facile morire sereni. Non è facile morire. Chi lo sa fare? Io ho trent’anni, la metà de tuoi. Non dovrei star qui a farti grandi discorsi sulla vita, ne sai più di me. Posso dirti solo che vado sempre più convincedomi di una cosa: vale solo quello che si fa per amore, tutto il resto passa. Per quanto ti conosco, zio, dovresti aver più di una buona ragione per essere sereno. Hai vissuto con onestà e coerenza. Sei stato disponibile verso gli altri. Saremo giudicati sull’amore…”. “Per me i tuoi genitori sono un esempio di disponibilità illimitata verso il prossimo”. “È vero. Sono fortunato ad avere dei genitori così”. “Tante cose avrei potuto farle meglio “. “Chi può dire di aver vissuto perfettamente? Anche i santi hanno fatto degli errori”. Ancora qualche parola, poi: “Quando tornerai in Italia la prossima volta?”. “Per Natale”, ho risposto. “Ci rivedremo, forse”. Credevo di doverti donare qualcosa. Invece sono stato io a ricevere una lezione di vita. Ci rivedremo, zio, ma non per Natale. Te ne sei andato dopo un paio di settimane. Devo essere sincero: pur nel dolore, non ho pianto. Ti sapevo arrivato a destinazione. I motivi per gioire erano di più di quelli per rattristarsi. La zia mi ha confessato che a volte ti tormentavano stati di panico, incapacità di accettare la morte, angoscia. Zia sostiene che dopo il nostro incontro non hai più avuto paura e che, seppur tra le sofferenze, sei morto sereno. Avevi ragione, gli ultimi minuti sono quelli decisivi.

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