Gli stati d’animo della gente
Al di là delle questioni di merito, la manifestazione del 5 aprile a Montecitorio è stata un curiosa occasione di prendere la parola
Forse lo si può liquidare come un’imitazione mal riuscita del celebre speaker’s corner (angolo degli oratori) del londinese Hyde Park, dove chiunque può salire – no, non su un predellino – su una panca o sgabello e arringare i passanti sui temi più svariati. Quello che è sicuro è che ai manifestanti che si sono riuniti il 5 aprile davanti a Montecitorio, mentre in aula si votava sul conflitto di attribuzione, non mancava la buona volontà di lasciare la parola a chiunque desiderasse prendere in mano il megafono.
Indetto dal popolo viola e da Libertà e Giustizia, il sit in – per quanto apartitico – ha riunito vari gruppi d’opposizione. Ad ogni modo, dopo il discorso introduttivo di Di Pietro, a risuonare è stata soprattutto la voce di semplici cittadini.
Cittadini che, più che questioni prettamente politiche, hanno portato la loro esperienza personale e il loro disagio davanti alla situazione attuale: «Ho un figlio di 11 anni: sentendo al telegiornale il ministro La Russa che mandava in “vaffa” Fini, mi ha chiesto se anche lui può mandare in “vaffa” la maestra». «Ho due lauree, ma faccio la parrucchiera per 1200 euro al mese. E devo dirmi fortunata, perché c’è chi ha molto meno». «Oggi ci sono dei lavoratori che manifestano al gazometro per chiedere che venga risolta in tribunale una loro vertenza sul lavoro, ma qui dentro ci si sta occupando di altri processi».
Una politica vista “dal basso”, dal proprio piccolo. Una maniera, forse, quasi semplicistica, ma che sa anche allargarsi ad una dimensione più ampia: «Siamo divisi tra nord e sud, tra destra e sinistra, tra pro e contro l’immigrazione. Ma dobbiamo stare uniti, perché un popolo diviso si domina meglio». In fondo, divide et impera lo dicevano già i romani.
Tra un discorso e l’altro, si instaura un dibattito sia tra i manifestanti e gli oratori, che tra i manifestanti stessi. A una signora che augura a Berlusconi di passare a miglior vita, l’oratrice risponde: «E anche allora, i problemi dell’Italia sarebbero forse risolti?». Tra la folla si sentono i commenti più disparati (e fantasiosi): da chi grida al rischio di guerra civile, a chi chiede l’invio di osservatori Onu, a chi racconta con fierezza di essere stato il primo a lanciare le monetine contro la Santanché. Una folla variegata, anche se sembra prevalere numericamente – almeno dal punto di vista anagrafico – la vecchia guardia sessantottina, che si lascia andare ai ricordi dei bei tempi.
Quando un gruppo di contestatori cerca prima di zittire Di Pietro e poi di disturbare altri, viene invitato a prendere la parola, ma si tira indietro. In effetti, sarebbe servito un bel fegato per farlo. Anche se, come ha osservato uno degli organizzatori, «oggi sta succedendo una cosa straordinaria: un luogo dove tutti possono parlare».
Certo, la libertà di parola ha un prezzo: ad un certo punto, anche aizzati da slogan e dalla lettura delle 37 leggi considerate ad personam al grido di “Vergogna!”, partono gli insulti rivolti al presidente del Consiglio, alla maggioranza e ai parlamentari tutti – opposizione compresa. Molti li seguono, ma c’è anche chi, tentando di urlare più forte, cerca romanescamente di zittirli: «A’ statte zitto, anche se ‘o pensi!». «È una questione di principio – osserva una signora – non si può insultare nessuno». Una minoranza, ma che cerca di contrastare una deriva che si avverte ormai su entrambi i versanti politici nel panorama italiano.