Gli spiriti dell’isola
Nel 2017 Martin McDonagh era stato premiato per il bellissimo e crudele Tre Manifesti a Ebbing, Missouri. A Venezia e non solo ancora premi per questo ultimo film, Gli spiriti dell’isola, dove siamo in un piccolo villaggio sperduto tra le brume e le scogliere di una immaginaria isoletta d’Irlanda sullo sfondo della guerra civile del 1923.
Qui vivono uomini e donne soli, con gli animali e il vento, tra il pub e la messa domenicale. L’ingenuo e dolce Patrick (Colin Farrell, Coppa Volpi a Venezia come miglior attore) vive con la sorella (Kerry Condon), carattere fermo e gentile, accanita lettrice, che sogna un avvenire diverso. Patrick è molto amico di un uomo più grande di lui, solitario, innamorato del suo cane e del suo violino (Brendan Gleeson, perfetto). L’amico inaspettatamente chiude l’amicizia: «Non mi piaci più, sei noioso» e l’altro tenta goffamente di capire il perchè, di recuperare il rapporto. Ma l’uomo ha deciso: vuole lasciare qualcosa di sè, non ha troppo tempo davanti, e compone musica per violino. Ogni tentativo di Patrick va a male: l’ex amico reagisce tagliandosi le dita e lui gli incendia la casa, ma gli salva il cane a cui è affezionato.
Fuori, nella natura ventosa sull’oceano grigio si aggira una vecchia strega, spirito atavico che predice sventure, ma pure l’ingenuo Dominic, figlio del poliziotto che lo violenta, desideroso di un amore che non gli è corrisposto e finito annegato tra le acque (suicidio?).
Patrick è condannato alla solitudine – la sorella lo lascia e se ne va –, mentre si scorgono nuvole di fumo oltre le acque: la guerra assurda è vicina, ed è anche assurda la guerra che si fanno gli uomini dell’isola, come i due examici, folli, al contrario della bellissima presenza degli innocenti, ossia gli animali. Tutti, in qualche maniera, desiderano amore.
Noia, solitudine, tristezza e volontà di rimanere nel ricordo degli altri, oltre la morte in un film doloroso, nero eppure così bello per la carica di umanità che lo percorre, tanto da superare il racconto del 1923 per diventare una parabola sulla vita umana di oggi e di sempre. Cosa resta dell’uomo e nell’uomo quando gli affetti svaniscono, l’amicizia si rompe e non si ricompone, quando la guerra appare per quello che è, una cosa insensata? . In questo breve poema tragico e con tratti perfino umoristici – la vita sa essere tragicomica – passano tante domande inquietanti e ben poche risposte se non l’ultima, prima che il film si concluda. Forse gli affetti possono rinascere in una diversa maniera e forse accettare il dolore è la chiave possibile per vincere la depressione sempre all’angolo che nemmeno la fede riesce a vincere? Perchè è chiaro che l’isoletta immaginaria non è altro che il nostro mondo, i due ex amici sono ritratti di persone attuali e che gli animali nella loro innocenza sono immagini di una purezza da ritrovare. Faticosamente.
Il miracolo di un film come questo sta nel coniugare dialoghi brevi e profondi con la poesia del paesaggio, dolore con il desidero di libertà, leggerezza con cupezza, grazie ad una fotografa magnetica che fa della natura un personaggio e a due attori che rubano lo schermo con una straordinaria immediatezza, accompagnati dalla regia che procede per togliere più che per aggiungere.
Nei colori smorti, nelle espressioni di rara intensità, questo lavoro in fondo può essere quello di far arrestare la morte – dell’anima, dei corpi, degli affetti – per lasciare qualcosa di noi. Con leggerezza, senza voler dire tutto. Siamo vicini al capolavoro. Da non perdere
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