Gli israeliani alle urne il 9 aprile
La settimana scorsa il presidente statunitense Donald Trump ha ricevuto alla Casa Bianca il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu, ed ha voluto fargli un regalo “elettorale”. Trump ha infatti firmato, il 24 marzo 2019, una dichiarazione che riconosce le colline del Golan come territorio israeliano.
Una dichiarazione arbitraria, non nuove per The Donald, che fa il paio con quella di Gerusalemme capitale di Israele, che ha naturalmente scatenato un vespaio di proteste nel mondo, arabo e non. Finora nessuno ci aveva provato, non l’Onu e neppure i precedenti presidenti statunitensi, ad espropriare la Siria di quei 1.800 km quadrati di territorio che l’esercito israeliano aveva occupato con le armi nel 1967, durante la Guerra dei sei giorni.
Si tratta di un piccolo, ma importantissimo territorio da cui si tengono sotto controllo Libano, Giordania e Siria, compresi gli Hezbollah, eventuali postazioni iraniane e la preziosa acqua del Giordano. Secondo una logica che sa di medievale, l’investitura a signore del feudo del Golan, offre a Netanyahu un’aura di gloria e un segnale di protezione dall’alto che potrebbe essere d’aiuto nella difficile prova che si appresta a sostenere: le elezioni politiche israeliane del 9 aprile prossimo. Elezioni che, per la prima volta dopo dieci anni, non saranno una passeggiata per il Likud, il partito di centro-destra di cui Netanyahu è leader pressoché incontrastato.
La decisione di indire nuove elezioni, sciogliendo il Parlamento, la Knesset, con un anticipo di 6 mesi rispetto alla scadenza istituzionale, è stata dettata dalla risicata maggioranza (61 seggi su 120) venutasi a creare dopo i contrasti con il ministro della difesa Lieberman e la fuoriuscita del suo partito, Ysrael Beytenu, dalla coalizione di maggioranza. A questa difficoltà politica va aggiunta un’accusa di corruzione rivolta a Netanyahu da parte della magistratura. Prima che il procuratore generale formalizzi l’incriminazione, sono state quindi anticipate le elezioni per evitare che il leader del Likud si trovi svantaggiato a causa della vertenza giudiziaria.
Il Likud, partito di maggioranza relativa, ha attualmente 30 seggi in Parlamento e quindi ha la necessità di allearsi con altri partiti minori per governare. Le maggioranze sono così da molto tempo, in Israele: il voto è per la lista, senza preferenze, e la legge elettorale è di tipo proporzionale con una soglia di sbarramento abbastanza bassa (3,5%), cosa che favorisce le piccole aggregazioni politiche. Anche chi raggiunge la maggioranza relativa, non è in grado di formare un governo senza alleati. Lo sa bene l’opposizione di centro-sinistra che nel 2009 ottenne la maggioranza relativa, ma non riuscì a trovare abbastanza alleati e dovette rinunciare al mandato di governo.
Ne approfittò Netanyahu, che da allora è rimasto sempre saldamente a capo di un governo basato sui voti del Likud e su quelli di varie aggregazioni di centro e di destra che si sono via via alternate. Tuttavia, in questi dieci anni, sono venute meno le alleanze con diversi partner di centro, rimpiazzati da piccoli raggruppamenti sempre più spinti a destra, fino a coinvolgere i cosiddetti partiti dell’ultradestra e raggruppamenti religiosi ultraortodossi. In pratica il governo di Netanyahu dipende dalle richieste dei gruppi di supporto ai coloni israeliani in Cisgiordania, che rifiutano l’idea di uno Stato palestinese e sono interessati solo a politiche identitarie ebraico-centriche.
Una novità nel quadro istituzionale si è verificata molto di recente con la nascita di un nuovo gruppo di centro dal nome patriottico: “Blu e bianco” (Kahol Lavan), un chiaro riferimento ai colori della bandiera nazionale israeliana. Un partito nato con la primaria intenzione di contrastare alcune politiche di Netanyahu, giudicate ambigue e dannose. I leader della nuova formazione politica sono tre generali, ex capi di stato maggiore (Benny Ganz, Moshe Ya’alon e Gabi Ashkenazi) e un giornalista e conduttore televisivo (Yair Lapid). Sulla carta il nuovo partito ha teoricamente i numeri per battere il Likud. Resterebbe comunque da vedere con quali partiti minori cercherebbe poi di allearsi in caso di vittoria. Il programma, liberal e laico, non è peraltro molto chiaro, ma presenta anche proposte aperte alla società civile e cerca di limitare le pretese dei sionisti ultra-intransigenti.