Gli hotel di Mumbai e i luoghi della fiducia
A diversi giorni di distanza, ci restano ancora impresse negli occhi le immagini dell’assalto terrorista agli hotel di Mumbai. Il Taj dal 1903 è il simbolo della città indiana: lo aveva voluto Jamshedji Tata, capostipite del colosso industriale, perché gli era stato negato l’accesso all’hotel più prestigioso dell’epoca, riservato ai bianchi. Destino strano quello del Taj: intitolato al monumento di Agra, dedicato cioè all’amore, è diventato simbolo di orrore: corpi straziati di turisti colpiti al ristorante o sulle scale trionfali, saloni celebri dati alle fiamme, muri trapassati dalle granate. Mumbai non è nuova a questi fatti. Negli ultimi quindici anni spesso il terrorismo ha colpito duro gente, case e treni; ma la città ha sempre rialzato la testa con i suoi 17 milioni di abitanti che sanno tornare alla vita normale con un’incredibile costanza. In passato i bersagli erano chiari: si capiva il perché di ogni attentato. Questa volta, no. Non era solo la gente di Mumbai a essere nel mirino, ma anche turisti, poliziotti, personale degli hotel, viaggiatori nella stazione di Victoria. Oltre a un giovane rabbino che, con la moglie, dal 2003 dirigeva un centro del movimento Chabad-Lubavitch, di tradizione hasida: un luogo di pace, secondo i vicini di Colaba, non distante dal Taj. Il terrorismo ha colpito l’appartenenza religiosa, ma anche le diverse cittadinanze, unendo nella tragedia cittadini di mezzo mondo, indù, cristiani, ebrei e musulmani. Assai meno incisive delle immagini, lo confesso, le parole spese per commentare la tragedia: già sentite dopo l’11 settembre 2001 (New York), già lette dopo l’11 marzo 2004 (Madrid), già scorse dopo il 7 luglio 2005 (Londra). Si litiga sulla priorità nella lotta al terrorismo, ci si accapiglia sul presunto scontro tra civiltà. Visioni militari, missioni di sicurezza e intelligence a breve o talvolta a medio termine. Raramente politici, giornalisti e intellettuali ragionano a lungo termine, a ben guardare il solo orizzonte in cui si possa trovare una qualche soluzione al vicolo cieco nel quale ci siamo infilati. E il terrorismo intanto colpisce, mentre nutre e cresce i suoi piccoli Osama. Per fortuna le parole del presidente Usa entrante – l’America non farà più da sola nel cercare un nuovo mondo dove non si uccide per odio – e le dichiarazioni di quello uscente – la guerra in Iraq è il mio grande rimorso – fanno sperare che qualcosa stia per cambiare, che non si continui solo la necessaria lotta al terrorismo ma si avvii l’ultranecessaria via alla convivenza. Il 30 novembre a Montecarlo, a un convegno di uomini d’affari che operano per la solidarietà internazionale e per un’economia che ritrovi il senso della realtà, e alla cerimonia di inaugurazione dell’Istituto universitario Sophia, a Loppiano di Incisa in Val d’Arno, ho colto finalmente due segnali di lungo respiro, per la costruzione di una convivenza fraterna, nella giustizia, via alla riconciliazione e alla pace. Due segnali di quelli che non fanno rumore, ma fecondano. A Loppiano – mille persone, vescovi cattolici e personalità ecumeniche, imam, rabbini e monaci buddhisti, giovani e adulti – il fisico Ugo Amaldi con poche ma esatte parole ha definito Sophia, cenacolo e crogiuolo della cultura dell’unità, come un luogo della fiducia. Luoghi, cioè, dove la gente ha lo sguardo alto di chi vuol uscire dai vicoli ciechi. E non luoghi, come direbbe Sergio Zavoli, anch’egli presente, dell’iniquità e del dolore. Non usciremo mai e poi mai dalla piaga del terrorismo internazionale se non moltiplicando questi luoghi della fiducia. Per combattere la paura e disarmare il fanatismo disperato dei terroristi serve infatti fiducia e condivisione. Non odio.