Gli effetti del coronavirus sull’economia globale
Con un’economia italiana già acciaccata, il panico generato dal Coronavirus rappresenta sicuramente una brutta sorpresa per l’Italia. Il volume della nostra economia si era già contratto del 0,3 % nell’ultimo trimestre dello scorso anno – il calo più marcato degli ultimi sei anni – e l’impatto del Coronavirus con ogni probabilità accentuerà questo trend negativo. Con i circa 125 milioni di arrivi turistici annuali – equamente ripartiti fra turismo interno e turismo internazionale – il giro d’affari garantito dalle visite estere ammonta a circa 42 miliardi di euro equivalenti al 6% del nostro PIL. Le restrizioni messe in atto in questi giorni, rendono il settore turistico estremamente sensibile al Coronavirus. L’allarmismo di questi giorni ha contribuito a far scendere la borsa di Milano di quasi il 5%, un dato che non si registrava dal giugno 2016.
Se la finanza la vede grigia, l’economia di tutti i giorni certo non sorride affatto. Ad oggi la maggioranza dei casi critici e delle relative restrizioni si sono concentrate fra Lombardia e Veneto, le due regioni che da sole costituiscono approssimativamente un quarto dell’intera economia italiana. Sono queste due regioni che ospitano una quota estremamente significativa di imprese vocate all’esportazione e concentrate su produzioni ad alto valore aggiunto, basate su una filiera produttiva molto internazionalizzata.
Ed è su questo secondo punto che si innesta la questione Cina, Paese ad oggi maggiormente esposto al Coronavirus, nonché punto di riferimento per quanto riguarda la supply-chain (catena di distribuzione dei prodotti) a livello mondiale. La dipendenza dalla Cina delle industrie occidentali ad alto valore aggiunto è estremamente marcata. Pensiamo alla fibra di carbonio per i telai delle “bergamaschissime” biciclette Bianchi, oppure le resine per le montature per occhiali superleggeri della bellunese Luxottica, solo per fare due eccellenti esempi lombardo-veneti. Se in Cina le fabbriche chiudono o rallentano la loro attività, nel giro di poche settimane le aziende europee e nord americane rimarranno senza forniture adeguate per la propria produzione.
Ci sono tre ragioni per pensare che i prossimi mesi potrebbero rivelarsi ancora più spiacevoli per molte aziende, specialmente le più avanzate e a vocazione internazionale.
In primo luogo, le grandi multinazionali si sono lasciate pericolosamente esposte al rischio della catena di approvvigionamento a causa di strategie progettate per ridurre solamente i loro costi. Ad esempio, molte hanno a disposizione solo scorte sufficienti per durare alcune settimane, fiduciose di poter sempre reintegrare i loro magazzini “just-in-time” (ordini espressi estremamente flessibili) risparmiando sui costi di stoccaggio.
La seconda vulnerabilità deriva dal fatto che oggi le grandi aziende dipendono molto più dalle fabbriche cinesi di quanto non lo fossero nel 2003, al momento dello scoppio dell’epidemia Sars. La Cina ora rappresenta il 16% del PIL globale, rispetto al 4% di allora. La sua quota di tutte le esportazioni di prodotti tessili e di abbigliamento è ora pari al 40% del totale globale. Genera il 26% delle esportazioni mondiali di mobili. Ma non è importante solo l’aumento delle dimensioni della base manifatturiera cinese. Dal 2003 le fabbriche si sono diffuse dalla costa alle regioni interne più povere come quella del Wuhan, dove è scoppiata l’epidemia. I lavoratori di questi luoghi ora lavorano nelle fabbriche di tutta la Cina e viaggiano molto di più, aumentando i rischi di diffusione interna del virus.
Il terzo motivo per pensare che le aziende più avanzate possano subire uno shock nella catena di approvvigionamento è che le regioni più colpite dal covid-19 e dai successivi blocchi del governo sono particolarmente importanti per diverse industrie globali. L’industria elettronica è maggiormente a rischio, a causa dei suoi stock relativamente risicati e della mancanza di fonti alternative per la fornitura di componentistica. La provincia di Wuhan è il cuore della “valle della fibra ottica”, sede di molte aziende che producono componenti essenziali per le reti di telecomunicazioni. Circa un quarto dei cavi e dei dispositivi in fibra ottica del mondo sono realizzati lì. Qui si trova anche uno degli impianti di fabbricazione di chip più avanzati della Cina, che produce la memoria utilizzata negli smartphone. Gli analisti temono che l’epidemia potrebbe ridurne la spedizione del 10% in quest’anno. Anche l’industria automobilistica – e tutto il suo indotto – è stata colpita. La mancanza di ricambi da parte dei fornitori cinesi ha costretto Hyundai a chiudere tutti i suoi stabilimenti automobilistici in Corea del Sud (ora li sta riaprendo parzialmente). Nissan ne ha temporaneamente chiuso uno in Giappone e Fiat-Chrysler ha avvertito che potrebbe presto interrompere la produzione in una delle sue fabbriche europee.
A lungo termine l’epidemia potrebbe smorzare la dipendenza degli approvvigionamenti dalla Cina. Le grandi aziende avevano, da tempo, ipotizzato che le loro catene di approvvigionamento internazionali fossero affidabili e facili da gestire. Recenti studi hanno rilevato che solo una minoranza di aziende valuta adeguatamente i rischi della catena di approvvigionamento. Per anni i boards delle aziende hanno trasferito la responsabilità dell’approvvigionamento a manager di medio livello, con il solo mandato di risparmiare una percentuale o due in più rispetto i costi dell’anno precedente. L’epidemia di covid-19 sta mettendo bene in luce i rischi di tali politiche volte al miope incremento dei profitti senza considerare più articolate strategie capaci di rispondere al crescente grado di incertezza e variabilità che caratterizza la nostra epoca.
Tommaso Reggiani (Cardiff University, lecturer in Economics)