Gli azeri del Nagorno-Karabakh
Questa mattina uggiosa di Baku comincia con ritardi vari, come spesso accade da queste parti, quasi che la giornata stessa provi qualche difficoltà a mettersi in cammino. Varie circostanze mi portano a far visita a alcuni profughi del conflitto del Nagorno-Karabakh, una ferita ancora aperta, vissuta da ogni azero come un affronto, anche se con una certa fatalità, ormai.
Gran parte dei profughi della regione contesa all’ovest del Paese caucasico, vive ancora in condizioni estremamente precarie. Circa ottocentomila di loro, su un totale di un milione, non ha ancora cominciato una vera e propria nuova vita, limitandosi a vivere dei sussidi pubblici e degli aiuti internazionali, sperando in qualche modo di poter tornare alle proprie case non appena sarà possibile.
Undici anni dopo la fuga. Undici anni dopo i tanti stenti che hanno dovuto patire in questi anni. Nel palazzo presidenziale, proprio ieri avevo ricevuto in omaggio dal consigliere del presidente un libro, un documento sulla tragedia del Karabakh, corredato da foto raccapriccianti e da dati apparentemente inequivocabili. Non si parla di genocidio – perché sarebbe una forzatura eccessiva della storia, nella cui cronologia i turchi si ostinano a non voler inserire il genocidio perpetrato da loro stessi contro gli armeni nei primi due decenni del XX secolo –, ma una certa rivincita sembrano volerla prendere nei confronti dei vicini-nemici armeni. Un’ostilità che non ha nulla o poco di religioso, quanto di etnico e politico.
Un edificio che definire tale è azzardato. Nel quartiere di Hita, a Baku, non molto lontano dalle residenze dei potenti, mi accompagnano di fronte ad un casermone alto una dozzina di piani, ma apparentemente fornito solo dello scheletro in cemento armato e di qualche tramezzo di forati. Il resto è totale precarietà: fili elettrici che si aggrovigliano in modo apparentemente inestricabile sospesi nel vuoto, panni stesi ad asciugare, cartone che protegge inesistenti finestre, infissi divelti o mancanti, strane concrezioni geologiche che si rivelano ad uno sguardo più attento come conglomerati di rifiuti e di materiali vari da costruzione. Un incubo. Qualche minuto di attesa, poi una donna accetta di farci entrare nella sua casa, o meglio, nel suo locale.
Saliamo al primo piano, percorrendo scale di cemento che paiono pendere, anzi pendono sul serio. Buio e fili sospesi e immondizie e gatti e quant’altro. Sopravvissuto all’attraversamento dell’ignoto, vengo fatto entrare in uno stanzone d’una decina di metri di lunghezza. Dopo l’antro delle scale, sembra un’oasi di pace e di bellezza. Tutte le superfici, tranne il soffitto, sono ricoperte di tessuti e tappeti, da poster, da specchi e da quadri. La tonalità che domina è il rosso, ma anche il giallo ha la sua parte. Alle pareti sono appoggiati una decina di letti, uno di seguito all’altro, mentre al centro della stanza un lungo tavolo traballante ricoperto di formica appare il luogo d’ogni attività. In un lato della sala, è stata ricavata quella che ritengo una cucina, visti i rumori e gli odori che da essa provengono. In un angolo della stanza una bacinella di metallo d’un metro di diametro accoglie un mucchio di pomodori rossi.
Come in una società matriarcale – e le famiglie del Karabakh sono tali –, la madre prende solennemente la parola, con una logorrea che subito appare quasi inarrestabile e che il mio traduttore fa non poca fatica a interrompere, anche perché sembra voler rispettare il dolore infinito di questa donna. «Scrivete correttamente quel che vi dico – inizia a dire –, perché i giornalisti sono troppo spesso dei bugiardi. Dicono solo quello che a loro interessa». La rassicuro.
«Siamo arrivati qui in 21, il 3 luglio del 1993. Ora siamo solo 14. C’è chi è morto, chi è emigrato, chi è nell’esercito. Viviamo qui, in promiscuità, senza intimità. Tutto quello che vedete ci è stato regalato, perché dalle nostre case di Aldam eravamo partiti senza nulla, nemmeno gli ori o un minimo di biancheria. Gli armeni avevano ucciso sei membri della mia famiglia». Poi una dichiarazione di fede politica: «Amavo di più il padre, Geidhar Aliyev, che aveva fatto finire la guerra e ci ha salvati. Il figlio Ilham non fa invece granché per noi. E gli europei si sono dimenticati di noi, e non vogliono più riportarci nella nostra terra che era così bella e fertile».
Erano dipendenti statali e agricoltori, i Musaich. Godevano di un certo benessere, che ora manca loro totalmente. Persino la scuola è quasi impossibile frequentarla per i ragazzi e le ragazze della famiglia. «Oggi ci danno cibo ed elettricità, ma nulla di più. Soprattutto, non ci danno speranza».
Un comitato raggruppa ora gli immigrati, ma anch’esso sembra preso nella rete della burocrazia e della corruzione che tanto potere sembra avere in Azerbaijan. E anche questo comitato non riesce a ottenere nulla. Ai profughi nel 1966 erano state offerte case come queste nella città di Baku, ma il comitato le aveva rifiutate, temendo che ciò significasse l’abbandono di ogni speranza di rivedere la loro terra. Così ora in questo palazzone, e in un pugno di baracche che l’attorniano, vecchi vagoni ferroviari trasformati in abitazioni, baracche di cartone e di stoffa. Qui vivono qualcosa come 237 famiglie, oltre milleduecento persone. Disumano.
«Siamo fuggiti senza niente – riprende il fiume in piena della capofamiglia –, perché non pensavamo proprio che la situazione precipitasse così rapidamente. Nel 1986 sono cominciate le prime avvisaglie dei guai futuri: piccoli problemi di proprietà, di vicinato, di commercio. I luoghi di culto venivano contesi dalle due comunità. Finché i soldati armeni e i loro carri armati nel luglio 1993 sono entrati in azione, e a tutti noi è subito parso chiaro che non avevamo alternative se volevamo salvare la pelle: fuggire. E ora gli armeni hanno occupato le nostre case, hanno preso i nostri ori, hanno sfruttato le nostre scuole. Vogliamo tornare in Karabakh, a tutti i costi, anche coabitando di nuovo con gli armeni. Però dobbiamo ricevere indietro i nostri beni. Penso che se i militari se ne andassero, riusciremmo a vivere di nuovo con gli armeni». Tutto è detto.
Visitiamo altri appartamenti, altri vagoni ferroviari, altre baracche. Tragedia dell’immigrazione, tragedia dell’odio etnico. Quando finirà?