Gli anni di fuoco di Lutero
Ad Eisleben, nel cuore della Sassonia, il tempo è instabile, il cielo grigio. Fa molto freddo.
Il dottore Martin Lutero, sessantadue anni, vi è arrivato il 1° febbraio dell’anno del Signore 1546 da Wittenberg, stremato, a cercare di mettere pace tra i due litigiosi fratelli, i conti di Mansfeld.
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Alterna fiammate contro gli avversari a fasi di depressione, in cui si sente povero e disgraziato, dubita di quanto ha fatto nella vita. Forse talvolta gli torna in mente quella scomunica che Leone X, l’“Anticristo” di Roma, gli ha emanato contro, oltre vent’anni prima. Anche se lui l’ha bruciata, una copia la conservano ancora, nell’Archivio Segreto Vaticano.
Arrivato stanco, si rimette tuttavia presto. Scrive alla moglie, la sua cara Käthe: spera di ritornare a casa quanto prima, dato che sta riuscendo a far riappacificare i due conti. La sera del 17 cena con gli amici; si mostra, come sempre, un brillante conversatore. È allegro all’inizio, poi si fa serio: parla del diavolo, della morte, del paradiso dove ci sono soprattutto i bambini e dove, lui ne è sicuro, si incontreranno.
Alla solita ora, le venti, va a dormire, accompagnato dai due figli Martin e Paul. Apre la finestra della camera per recitare le preghiere, ma sente un dolore lancinante al petto. Ha brividi di freddo. Lo si mette a letto cercando di riscaldarlo e si va a cercare un medico. Lutero mormora: «Sto male, ho paura. Forse mi tocca rimanere in questa città dove sono nato e dove sono stato battezzato».
È ormai notte fonda. Arrivano in fretta gli amici, il conte Albrecht e la contessa che porta ogni sorta di cordiali per stimolare l’ammalato. Ma Martin intuisce che è giunta la sua ora. […]
Lutero dice per tre volte, in latino: «Nelle tue mani, Signore, affido il mio spirito». A chi gli chiede se vuole morire nella dottrina di Cristo, risponde chiaramente «Sì». Poi, più nulla. Nella stanza regna l’agitazione. […]
Chiamano un farmacista per un ultimo tentativo, anche se è un “papista”. Quando arriva, verso le tre meno un quarto della notte, Lutero emana un respiro profondo e leggero: è il 18 febbraio, il riformatore è morto. A Trento si è aperto da due mesi quel concilio che ha tanto invocato.
Ora, lui non c’è più. Ad Eisleben vestono il cadavere di bianco, chiamano un pittore locale a fargli il ritratto. Lutero vi appare finalmente riposato, in pace. Il 20 febbraio si prende la maschera mortuaria. Lo si trasporta a Wittenberg, la città dove è vissuto decenni, lo si seppellisce nella chiesa del castello. Qui riposa, visitato da molti, anche oggi. La sua tomba, nessuno l’ha profanata, nemmeno il grande avversario, l’imperatore Carlo V, quando le sue truppe hanno conquistato la cittadella della Riforma.
Così ha termine la vita di un uomo che ha scosso l’Europa con la sua personalità, un’avventura umana e spirituale dopo la quale l’Occidente non è stato più quello di prima. Dopo la morte di questo monaco tedesco, appassionato ricercatore di Dio, fra le sue carte si trova un biglietto rivolto a Lui: «Siamo dei mendicanti. È vero».
È quanto questo libro cerca di raccontare, privilegiando gli anni di fuoco della rivoluzione di Martin Lutero.
Da “Lutero. L’uomo della rivoluzione” di Mario Dal Bello (Città Nuova, 2017)