Gli angeli dello sport

Il 2011 sta volgendo al termine. Un anno ricco di emozioni, ma anche di tragedie  che hanno coinvolto grandi campioni dello sport. «La vita non è solo podio ma anche sacrificio, allenamento, sconfitta e attesa»
konkov

Karl Unterkircher, celebre alpinista scomparso nel 2008, scriveva in un suo diario di viaggio: «Siamo nati e un giorno moriremo. In mezzo c’è la vita. Io la chiamo il mistero del quale nessuno di noi ha la chiave. Siamo nelle mani di Dio: se ci chiama dobbiamo andare». Nel corso della storia, a volte, gli eventi sociali e politici hanno creato le condizioni per “vestire” i grandi campioni dello sport con l’abito del mito, ovvero quella figura che segna un’epoca. È stato così per l’Italia nel secondo dopoguerra divisa tra “coppiani” e “bartaliani”, così come per Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968: le immagini della loro premiazione sul podio, con il pugno alzato in segno di protesta per le discriminazioni razziali nei confronti dei neri, hanno riecheggiato in tutto il mondo, fino a colorare le moderne pagine dei libri di storia. Anche per questo i grandi campioni dello sport hanno sempre avuto un fascino leggendario nell’immaginario collettivo.

 

In questo 2011 sono stati proprio loro a volersi staccare di dosso un’etichetta fatta di “glamour”, di celebrità popolare e prime pagine dei rotocalchi sportivi. Quasi a voler sussurrare a tutti noi che in fondo un atleta è sì una “macchina per regalare emozioni”, ma che in fin dei conti ha un’anima, una vita in quanto tale immersa in una quotidianità, dove vengono espressi tutti i veri valori dell’esistenza. A volte con qualche difficoltà.

 

Il “circo bianco” dello sci si è fermato lo scorso gennaio di fronte alla morte subdola e insensata di Simona Senoner, la diciassettenne italiana saltatrice con gli sci, colta da un malore mentre era in albergo nell’attesa di disputare la sua gara. Il Giro d’Italia ha assistito inerte, nel mese di maggio, alla morte del ventiseienne belga Wouter Weylandt, incappato in una fatale caduta durante una discesa. L’Unione Europea ha espresso il suo cordoglio lo scorso 7 settembre per il disastro aereo che ha causato la scomparsa di tutti i giocatori della Lokomotiv Yaroslav, squadra professionistica russa di hockey su ghiaccio. Nient’altro da aggiungere a queste righe se poi citiamo la vita spezzata del “nostro” Marco Simoncelli, rampante motociclista, andatosene anche lui per una tragica fatalità durante il gran premio della Malesia il 23 ottobre. Tutta l’Italia, minata da una crisi politica, economica e di identità, si è fermata per abbracciare un campione semplice, genuino ed esuberante, determinato in pista quanto generoso e disponibile nella vita di tutti i giorni.

 

Se le vite spezzate dei piccoli e grandi (anagraficamente) campioni dello sport di oggi è servita a qualcosa, ecco allora che questi semplici “eroi” hanno voluto ricordarci che la loro vita non è finzione, allegoria o carburante per lo show business. Perché in fin dei conti non c’è forse nulla di più umano e reale di un uomo o una donna che sfida sé stesso e gli avversari, nel rispetto delle regole, confrontandosi con i pericoli del mestiere. Se il principio di realtà è la capacità di rinviare la soddisfazione, rinunciando ad un utile facile ed immediato, possiamo capire, anche grazie al sacrificio di chi lo sport lo pratica come mestiere, ciò che veramente conta. La vita va spesa bene, nel pieno del suo vigore, imparando magari dalle sconfitte a trovare la strada che conduce alle vittorie più grandi. «Meglio cinque minuti in moto che una vita sprecata», diceva il nostro “Sic” Marco Simoncelli.

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