È giusto postare su FB le foto dei figli?
Lo sharenting è un argomento estremamente delicato. Con questa criptica etichetta (come troppo spesso accade mutuata dall’inglese) si indica l’abuso dei social da parte dei genitori per discutere delle esistenze ed esigenze dei propri figli, spesso piccolissimi. In particolare, di uno degli atteggiamenti legati a questa bulimia genitoriale, vale a dire la condivisione di immagini e video dei bambini. In quest’ultimo caso, a soli fini esibizionistici. Insomma, quello che giornalisticamente viene sintetizzato come “le foto dei bambini sui social network”.
Una modalità d’uso, per certi versi uno standard di presenza sul web – nel senso che c’è gente che non concepisce altri contenuti –, tanto capillare da aver spinto in passato la piattaforma di Menlo Park a sfornare uno strumento ad hoc. Si tratta di Scrapbook, una sorta di album fotografico, condiviso fra i genitori, degli scatti dei figli, che funziona grazie a un tag di fantasia condiviso per identificare il bambino o i bambini e far confluire quel contenuto in una cartella definita per la quale impostare i parametri di riservatezza. Ne parleremo nell’ultimo capitolo, quando passeremo in rassegna una serie di tentativi di ambienti e social network dedicati ai più piccoli.
Insomma, lo sharenting è diventato una vera e propria epidemia fra mamme e papà. E ha sollevato negli anni, specialmente negli ultimi due, una serie di focose polemiche fra sostenitori e detrattori. Come capitò per esempio quando un pubblico ministero in forze all’epoca al Tribunale dei minori di Torino, Valentina Sellaroli, spiegò che pubblicare le foto dei propri bambini su Facebook o comunque su internet è pericoloso e sconsigliabile. È vero, talvolta le piattaforme possono avere dei vantaggi – per i genitori, sia chiaro, mai per i piccoli – come aiutare a sentirsi meno soli. […]
Ma anche, come è ovvio che sia, per rimanere in contatto con amici e parenti lontani. Tutto comprensibile, ma perché non transitare da chat e conversazioni private per documentare la crescita del proprio figlio ai nonni che vivono in un’altra città? Oppure, banalmente, utilizzare le impostazioni della privacy rendendo visibile un album fotografico di Facebook solo a certe categorie di “amici”?
Sotto a questo dubbio ne cova anche un altro, più scivoloso, di tipo cioè etico. Di quale autorità dispongono i genitori sulla vita futura del proprio figlio? In altre parole: foto e video vengono dati in pasto a tribù di contatti senza che i bambini possano aver dato la propria approvazione. Il fatto che, curiosamente, si ribalti la situazione prevista da leggi come il COPPA statunitense o il Regolamento per i dati personali europeo non deve stupire più di tanto: dà il senso dell’immaturità e dell’impreparazione che contraddistingue tutti, genitori e no, alle prese con ambienti digitali che, pur fondati ormai qualche anno fa, mantengono una loro totale novità antropologica.
La questione si allarga dunque a un problema di futuro: i bambini, una volta cresciuti e alle prese con la propria rete sociale, magari su quelle o altre piattaforme, si ritroveranno dotati di un fardello di contenuti digitali impropriamente pubblicati nel corso degli anni dai genitori. Senza, ovviamente, che il soggetto più importante della relazione – il bambino – avesse alcuna possibilità di dire la sua. Senza contare che quando le immagini, e ogni altro genere di contenuto, vengono pubblicate sulle piattaforme se ne perde di fatto il controllo.
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Insomma, finché sono online quelle foto diventano anche di Facebook, per così dire, e potrebbero rimanere memorizzate in chissà quale data center di Menlo Park per un certo periodo di tempo perfino dopo l’eliminazione. Solo questo – evitando dunque di ricordare i numerosi casi di cronaca che virano su differenti fattispecie, dal digital kidnapping, il rapimento dell’identità digitale, ai materiali che finiscono nel gorgo pedopornografico e poi nel deep web – basterebbe a suggerire maggiore accortezza nel bombardamento videofotografico infantile.
Da Nasci, cresci e posta. I social network sono pieni di bambini: chi li protegge? Simone Cosimi e Alberto Rossetti (Città Nuova, 2017)