Una giusta memoria per il milite ignoto
Avvicinandoci al 4 novembre, anniversario della vittoria italiana nella Prima Guerra mondiale, in questo 2021 ricorre il centenario della traslazione del milite ignoto presso l’Altare della patria, costruito nel centro storico di Roma per celebrare i fasti del re Vittorio Emanuele II di Savoia e dedicato alla “Dea Roma”.
Una grande opera avviata dal 1895 e conclusa nel 1935, ma inaugurata nel 1911, a 50 anni dall’unità d’Italia, al tempo della guerra di Libia che, secondo alcuni storici, come Franco Cardini, ha costituito la “scintilla” iniziale di quel secolo di conflitti mondiali culminato con l’atomica di Hiroshima. Se nella guerra tra Italia e impero turco in disfacimento i nostri velivoli sperimentarono il primo rudimentale bombardamento aereo celebrato dai versi di D’Annunzio, il vero teorico della guerra aerea come arma di distruzione di massa è stato Giulio Douhet, ufficiale di origini nizzarde e promotore dell’idea di costruire una tomba da dedicare al “milite ignoto” come simbolo dei tanti soldati uccisi in battaglia e rimasti senza nome, perché irriconoscibili dopo essere stati dilaniati durante i combattimenti della cosiddetta “grande guerra” del ’15-’18.
Un’idea che ha avuto la forza di costruire un immaginario sull’eroicità dei fanti caduti in battaglia in un evento tragico, ma che ancora adesso viene presentato come il mito fondativo della nazione di soldati di diverse regioni, che parlavano lingue diverse, ma erano affratellati dalla vita dura della trincea. Questa strategia di propaganda politica è stata perseguita in tutta Europa, come descritto magistralmente dallo storico tedesco George L. Mosse, ad opera delle stesse classi dirigenti che avevano deciso di mandare al massacro un’intera generazione di giovani soldati. I tentativi di vera fraternità tra truppe nemiche, come la tregua di Natale del 1914 (che si svolse sui campi di Verdun, La Somme, il Crinale di Vimy, il saliente di Ypres) vennero repressi ferocemente dai vertici militari.
L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 avvenne con un colpo di mano del re assieme al presidente del consiglio Antonio Salandra e del ministro degli esteri Sidney Sonnino, contro la volontà della maggioranza del parlamentari vicini alla linea neutralista di Giovanni Giolitti, ma con il sostegno della grande stampa e delle violenti minoranze interventiste. Le masse cattoliche furono indotte ad obbedire all’autorità mentre quelle socialiste rimasero intrappolate nell’ambigua posizione del “non aderire, non sabotare”.
L’appello del papa Benedetto XV a porre fine all’ “inutile strage” nel 1917 era rivolto ai capi delle nazioni, ma non svincolava dall’obbedienza verso i superiori celebrata, ad esempio, dal francescano Agostino Gemelli, ufficiale medico e cappellano militare al comando del generale Luigi Cadorna, che ordinò di reprimere senza pietà ogni tipo di insubordinazione. Dobbiamo allo storico Alberto Monticone la scrupolosa ricostruzione storica della orribile fine dei tanti soldati fucilati ingiustamente al fronte, spesso con la tecnica della decimazione.
Un progetto di legge per ridare l’onore alle tante vittime di tanta ottusa ferocia è stato avanzato dai parlamentari Giampiero Scanu e Giorgio Zanin nel 2016, ma ha dovuto subire lo stop bipartisan da parte del Pd con Nicola La Torre, ora a capo della agenzia che gestisce le unità industriali della Difesa, e dal centrodestra con Maurizio Gasparri, noto esponente di Forza Italia proveniente da Alleanza nazionale.
È stata invece promossa in diversi comuni da Fratelli d’Italia l’iniziativa per dare la cittadinanza onoraria al milite ignoto in occasione del centenario della traslazione dei resti dell’anonimo caduto in guerra fatto scegliere in una cerimonia straziante da una madre di un giovane soldato proveniente dalle terre irredente sottratte all’impero austroungarico.
La costruzione del mito del milite ignoto è avvenuta contemporaneamente alla distruzione di tutti quei monumenti eretti dalla popolazione per ricordare la follia di una guerra che produsse 10 milioni di morti e un numero di feriti orrendamente mutilati, in un conflitto dove furono testati i gas venefici e i mezzi più moderni assieme a quelli più arcaici, come le baionette o le mazze ferrate usate per finire i feriti nelle trincee conquistate al nemico.
Un tale carico di violenza è stato all’origine del nazismo e, prima ancora, del fascismo che si instaurò in Italia nel 1922 (siamo alla vigilia del centenario), grazie ancora ad una scelta deliberata di quella stessa monarchia sabauda che decise l’entrata in guerra nel 1915 e poi ancora nel 1940 assieme alla Germania di Hitler.
Il centenario della “grande guerra” sembra passato invano nel nostro Paese che non riesce ad affrontare i nodi irrisolti e oscuri della sua storia. La pietà verso un povero giovane inviato al massacro dal potere irresponsabile dell’epoca potrebbe essere l’inizio di un dialogo aperto e libero da ogni retorica.
Quando papa Francesco è andato nel settembre del 2014 a visitare il sacrario militare di Redipuglia, fatto costruire dal fascismo per ragioni propagandistiche di regime, l’allora ministro della Difesa, Roberta Pinotti, gli ha fatto dono di un altarino da campo usato dai cappellani militari che, da una parte e l’altra del fronte, sostenevano i soldati mandati a morire.
Francesco davanti alle tombe di quei 100 mila giovani italiani della “Grande guerra” ha detto parole che suonano sempre più attuali: «Sopra l’ingresso di questo cimitero, aleggia il motto beffardo della guerra: “A me che importa?”. Tutte queste persone, che riposano qui, avevano i loro progetti, avevano i loro sogni…, ma le loro vite sono state spezzate. Perché? Perché l’umanità ha detto: “A me che importa?”. Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta “a pezzi”, con crimini, massacri, distruzioni… Anche oggi le vittime sono tante… Come è possibile questo? È possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante!
E questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi, hanno scritto nel cuore: “A me che importa?”. È proprio dei saggi riconoscere gli errori, provarne dolore, pentirsi, chiedere perdono e piangere».