Giuseppe Savastano: Micor (Misericordia)
Il pallottino Giuseppe Savastano (1916-1988), tra i primi religiosi adereni al Movimento dei Focolari, non ha visto l'uscita di "Unità e Carismi", ma ha ispirato la sua nascita.
Terzo di nove fratelli, Giuseppe Pietro Savastano, nasce il 26 febbraio 1916 a Fontanafredda, frazione del comune di Roccamonfina, in provincia di Caserta. Quando ancora frequenta la scuola elementare, conosce un padre pallottino. Questo fatto sarà decisivo per la sua scelta di vita. Più tardi, la felice sorpresa dell’incontro col Movimento dei Focolari lo contagia ulteriormente del fuoco di quella carità universale che illuminerà la sua vocazione e la figura del suo fondatore, san Vincenzo Pallotti.
“Si chiama don Giuseppe Savastano, ma noi l’abbiamo da sempre chiamato Micor, cioè ‘misericordia’, per avere impersonato questa virtù in modo eccezionale. Ha sempre misurato gli altri con amore senza limiti ed ora nel medesimo modo è misurato da Dio”. Cosi aveva detto di lui, ai membri del Movimento dei Focolari, Chiara Lubich, qualche giorno prima che don Savastano morisse.
“Vogliamo leggere la vita di don Savastano come la storia di Dio in un uomo: storia operata da Dio attraverso la piena disponibilità di una creatura”. Con queste parole, don Vittorio Vinci, superiore dei Pallottini, l’Istituto cui apparteneva don Savastano, aprì il 25gennaio ‘88 la celebrazione eucaristica in occasione delle esequie. E così vorremmo stendere questo suo profilo.
Don Savastano fu provinciale e vicario generale dei Pallottini, e ne fu consultore generale per tre volte di seguito, fino al termine della sua vita. Comprese profondamente il carisma del Pallotti e lo trasmise nelle nuove Costituzioni dell’istituto, alle quali ha lavorato diciassette anni fino ai suoi ultimi giorni, rendendo un grande servizio all’istituto e alla Chiesa. Fu anche parroco a Roma.
La sua vita continua quella di san Vincenzo Pallotti. I giovani di una comunità imbevuta di spiritualità pallottina dicevano che quando entrava lui in mezzo a loro sembrava che entrasse Pallotti stesso, e dicevano di rivederlo in lui quasi fisicamente.
Anche un confratello, che gli è stato vicino per quasi quarant’anni, testimonia che la sua presenza faceva cadere ogni discorso che divagasse dall’essenziale, e richiamava ad una presenza che era quella del fondatore.
In una lettera, scritta a Chiara Lubich nella Pasqua del 1963, il Nostro dice: “Invitato ripetutamente dalla superiora generale, ho parlato ad una quarantina di suore pallottine dell’Ideale dell’unità, come ricavandolo dagli scritti di san Vincenzo Pallotti. Sapessi la loro gioia! Nei tre giorni scomparivano ferite e la comunità diventava luminosa. Qualcuna ha detto: ‘È stata la Madonna a mandarlo’; altre dicevano di aver avuto l’impressione di una visita di san Vincenzo Pallotti”.
Probabilmente soltanto qualche mese prima della morte, si è accorto di quanto egli aveva rivissuto il suo fondatore. Scriveva, infatti, a Chiara Lubich nel novembre ‘87: “Il tuo invito a parlare ha messo più a fuoco una dimensione dell’unità: ‘Quello che è mio, è Tuo; e quello che è Tuo è mio’. È vero, il nome che mi hai indicato, Micor, è molto bello e spesso mi commuove. Mi inserisce sempre più in san Vincenzo Pallotti. A conclusione di una pagina, egli scrive: ‘Il Paradiso è pieno delle misericordie di Maria. Canterò in eterno le misericordie del Signore. In eterno canterò le misericordie di Maria’”.
Una nascita nuova
Scriveva di sé, Micor, dopo aver incontrato il Movimento dei Focolari: “Ho quarant’anni e sono sacerdote da diciassette: ho sentito la vocazione al sacerdozio fin dalla fanciullezza e in questo senso non ho mai avuto dubbi.
Il periodo della preparazione trascorse senza eccessive difficoltà e, man mano che gli anni passavano, comprendevo sempre più la serietà e la responsabilità della vocazione.
Ordinato sacerdote, i superiori mi destinarono all’insegnamento e mi affidarono gli aspiranti (ragazzi della scuola media e del ginnasio, che manifestavano qualche inclinazione a diventare Pallottini). Lavoravo con zelo e dedizione, e superiori e confratelli mi circondavano della loro stima e del loro affetto. Nel 1947 fui mandato in Calabria per aprire una nuova casa con annesso liceo classico.
Qui cominciò per la mia vita spirituale un periodo tristissimo che durò circa quattro anni.
Nell’ambiente tutti mi stimavano: la scuola si affermava e otteneva il riconoscimento legale, insegnanti e alunni mi circondavano della loro benevolenza, il clero locale si rivolgeva a me come a fratello e sostegno, il vescovo mi affidava la cura spirituale della comunità delle suore, le autorità civili mi facevano dono della cittadinanza onoraria. Ma nell’anima avevo la morte…
In queste condizioni, col voto quasi unanime dei confratelli, venni nominato provinciale: la prima volta rifiutai, la seconda dovetti accettare (nel 1949). Sperai che il ritorno a Roma e il periodo di grazia della beatificazione del fondatore (Anno Santo 1950) valessero a risolvere la mia crisi e a darmi la forza. Ma tutto fu inutile. Al di fuori, rimanevo equilibrato e continuavo a donarmi con zelo; di dentro c’era un abisso profondo.
Il 27 febbraio 1951, tornando a Roma dalla Calabria, trovai una breve lettera; una giovane, che alcuni anni addietro, quando mi trovavo ad Ostia, veniva da me per confessarsi, mi diceva d’aver conosciuto un Movimento nuovo e mi invitava ad avvicinare alcuni amici del Focolare di piazza Lecce a Roma.
Vi andai il giorno successivo: trovai un ingegnere, un medico, un operaio; con loro trovai un servita, un fratello laico cistercense, un missionario che parlava pochissimo l’italiano. Fui accolto con grande semplicità e cordialità e mi trovai come a casa… L’ingegnere parlava sorridendo e diceva delle cose semplicissime; quando egli fu chiamato al telefono, continuò il medico e prese a narrare di una giovane ‘lontana’ che si era convertita incontrandosi a caso con alcune giovani del Movimento.
Me ne tornai a casa con una gran voglia di piangere. Telefonai alla persona che mi aveva scritto per ringraziarla e chiesi di vederla. Mi raccontò in breve la storia del Movimento e me ne spiegò la spiritualità.
Mi sembrò di comprendere per la prima volta le parole del Vangelo: ‘Se non diverrete come fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli’, e mi tornava nell’anima la fiducia nella santità. A conclusione, esclamai: ‘Puer natus est hodie’[1].
Tornai più volte a piazza Lecce: ascoltavo senza parlare. Scompariva in me la sensazione di vuoto e di solitudine e ritornavo ai miei confratelli come addolcito, e un’idea sosteneva la mia vita incipiente: amare Gesù nei fratelli.
Ripresi a celebrare quotidianamente la Messa e ritrovai la gioia della preghiera. Il vicario provinciale e il rettore della comunità mi chiesero cosa mi fosse successo: mi trovavano cambiato.
Entro pochi giorni, specialmente dopo che l’ingegnere mi parlò dell’amore a Gesù crocifisso e abbandonato, mi ‘sembrò di aver compreso abbastanza cosa fosse l’Ideale’: è santità e via alla santità, via che si percorre assieme e il segreto dell’unità che ci lega è l’amore alla croce… Perciò ‘amatevi comeio vi ho amati!’.
Il 21 marzo 1951 partii per gli Stati Uniti, per la visita canonica a quella parte della provincia. Le difficoltà che incontrai nel nuovo ambiente non furono poche; mi tennero in piedi le lettere che di tanto in tanto mi arrivavano e la certezza dell’unità coi fratelli lontani.
… Tornai in Italia dopo un anno e mezzo. Ero stanco e pensavo di riposarmi. Invece le cose si complicarono in modo tale che la vita mi sembrava impossibile.
Continuai ad avvicinare i focolarini in silenzio ed incontrai in focolare anche un altro provinciale: da questi incontri attingevo la forza per rimanere al mio posto, scomparivano il dolore e l’umiliazione personale, cominciavo a comprendere il dolore e l’abbandono di Gesù. Come provinciale, dovendomi recare per ragioni d’ufficio in varie città, ne approfittavo per fare brevi visite ai focolari. A Trento, a Torino, a Parma, a Milano, a Firenze, a Roma trovavo sempre un ambiente di grande semplicità e armonia: povertà sorridente e luminosa.
Al termine del mio provincialato, i superiori mi destinarono come parroco alla parrocchia di Roma, ‘Regina Apostolorum’.
Qui, per ragioni di ministero, ebbi occasione di conoscere a fondo molti focolarini e focolarine; persone di ogni ceto, età, stato, ambiente e sesso che vivevano l’Ideale.
Nei focolarini trovavo sempre la massima concretezza di vita: una carità costante, soprannaturale e gioiosa, anche nelle difficoltà fisiche o spirituali, che non mancavano: il Signore prova coloro che ama.
Nella meditazione e quando sono all’altare mi si presenta spesso all’anima questo spettacolo di vergini, di sposati, di vecchi, di fanciulli su di uno stesso piano di santità con la coscienza della loro unità, per i rapporti di carità viva, come membra della stessa Chiesa.
Non saprei dire il numero di conversioni di cui sono stato fatto depositario quando mi trovavo in parrocchia…
Ho conosciuto non cattolici ed anche marxisti, che scoprono la Chiesa e vi rientrano”.
Sarebbe bello poter proseguire riportando tutto il racconto di don Savastano che risale ei primi tempi del suo incontro con l’“Ideale”. Ma qui può sorgere subito un pensiero: non richiama tutto questo un po’ anche la “Società dell’Apostolato Cattolico” quale il Pallotti l’aveva concepita per la conversione dei non-cristiani e degli acattolici e l’animazione dei fedeli? Come, poi, non ricordare la “casa di carità”, fondata da san Vincenzo Pallotti?
Padre Savastano non poteva fondare una casa, ma era lui stesso una casa aperta per tutti e riusciva, raccogliendo aiuti per i poveri, a sollevare tante miserie.
L’amore tutto rinnova
Dalla Chiesa, e cioè dai cristiani uniti in un “popolo adunato nell’Unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (san Cipriano), sono nati tutti i santi e quindi tutti i fondatori con i loro istituti. Non fa meraviglia allora che, in un movimento ecclesiale, che vuole costruire quella “città di Maria” che raccoglie tutte le vocazioni della Chiesa, tanti religiosi ritrovassero il loro carisma originario e riscoprissero i lineamenti del loro fondatore.
A questa comune, unica fonte si ritrovarono a bere assieme; e assetati della stessa acqua, si scoprirono, alfine, fratelli.
Quando poi, alcuni confratelli dello stesso istituto abitavano nella stessa casa, allora non potevano nascondersi l’un l’altro la gioia della loro scoperta, non potevano non “comunicarsi questa anima” e non comunicarla a chi aveva trasmesso loro quella luce, perché la stessa gioia fosse di chi aveva seminato e di chi aveva mietuto.
Padre Savastano ebbe la fortuna e la grazia di trovarsi nella sua casa con altri due, con cui la sera si riunivano insieme per pregare, per comunicarsi le esperienze di fede, e per comunicarle telefonicamente a chi era stato lo strumento di Dio per quella grande riscoperta.
Così scriveva allora padre Savastano: “In comunità siamo tre sacerdoti a vivere l’Ideale dell’unità siamo, principianti, è vero, ma non possiamo fare a meno di testimoniare il dono di Dio.
Umanamente siamo tre tipi diversi: uno tutto calma, l’altro tutto fuoco, il terzo tutto semplicità; a seguire l’impulso naturale staremmo sempre a discutere, ma ci siamo detti: ‘Mettiamoci a vivere come i focolarini vivono in focolare’.
Ci comunichiamo le grazie che il Signore ci dona e nell’agire non seguiamo il punto di vista personale, ma facciamo ciò che nell’unità a tre ci sembra più conforme alla gloria di Dio. E non ci sentiamo una comunità nella comunità: siamo piuttosto come figli che s’accordono su come far contento il papà e gli altri fratelli.
Abituati a giudicare e criticare, siamo stati colpiti dalla carità di chi, in ogni circostanza, sa cogliere il positivo e non critichiamo più i nostri superiori; siamo anzi a loro uniti, nella certezza che la volontà di Dio ci si manifesti attraverso la loro parola; e al padre provinciale parliamo con fiducia del nostro lavoro e del nostro apostolato.
Prima avevamo ciascuno un proprio mondo con un insieme di amicizie solo umane e di attaccamenti a cose futili; pian piano, senza che neanche ce ne accorgessimo, l’Ideale ce ne ha come svuotati; amiamo la comunità e l’unica nostra gioia è quella di trovarci assieme per rendere più concreti e coscienti i vincoli che ci uniscono con ognuno dei confratelli. Il nostro linguaggio è purificato: prima quasi ci vergognavamo di pronunciare il nome di Gesù; ora, gli altri discorsi non ci interessano.
Nella nostra, come in tutte le comunità, ci sono tante difficoltà: Gesù ci ha fatto comprendere che se gli ingranaggi scricchiolano, è nostro compito mettervi una goccia d’olio.
Stiamo di controllo l’un l’altro, ma è un controllo d’amore, nel senso che basta uno sguardo per ricordarci l’Ideale che abbiamo scelto… Il distacco dalla nostra volontà ci dà una grande serenità, e gli altri sono sorpresi perché ci vedono sorridenti.
La nostra vocazione si è approfondita e dilatata… amiamo il nostro fondatore e la nostra Società e ci facciamo uno con i nostri confratelli, ma abbiamo l’anima aperta verso tutte le Famiglie religiose nella Chiesa, affinché il mondo dilaniato dalla disunità, creda che Gesù è venuto”.
Fin qui, abbiamo fatto parlare padre Savastano. Aggiungiamo qualche breve tratto delle molte testimonianze che abbiamo potuto raccogliere.
Noteremo anzitutto la sua presenza discreta, mariana: “Ho conosciuto padre Giuseppe Savastano a Roma – scrive un membro del Movimento dei Focolari – forse negli anni ‘58-‘59, dopo le due ultime mariapoli a Fiera di Primiero. La prima impressione fu di trovarmi davanti a una persona semplicissima, umilissima, quasi inesistente. Poi, parlandogli, mi accorsi della sua profondità e ricorsi spesso a lui per consiglio”.
Per chi non lo conosceva, non era invero facile capire subito chi fosse Micor, perché il suo parlare non era frutto di uno sforzo logico: egli non voleva costruire dei ragionamenti, non voleva “andar dietro” alla sua testa, pur avendo una buona cultura, ma “tener ferma l’anima”, come diceva a noi qualche volta, ed esprimere ciò che veniva da “quella voce” interiore che si coglie se si è immersi nell’ascolto di Dio.
Volendo unicamente amare, Micor non si preoccupava di altro. Mi permetto di fare questa aggiunta, avendolo conosciuto da
vicino, anche nel “cuore e nell’anima”. Cosi capitava che quando si trovava di fronte a gente curiosa di sentire ragionamenti ben filati, allora “i ragionamenti ballavano allegramente”. E ciò che avvenne di fronte ad un gruppo di ospiti tedeschi ai quali, nella mariapoli del ‘58, dovette raccontare il suo incontro con il Movimento.
La testimonianza di una focolarina tedesca, presente a quell’incontro abbastanza difficile, continua dicendo: “Poi, entrata nel focolare a Roma, l’ho conosciuto personalmente… Micor effondeva una gran pace con la sua comprensione soprannaturale: tu ‘vedevi’ e ‘capivi’ le cose nella loro semplicità ed unità; le capivi ‘dal di dentro’, da Dio. Era forse il suo essere pieno di Dio che traspariva dalle poche parole dette e dal suo silenzio. Ti lasciava nella luce”.
Un focolarino medico dà, forse, la spiegazione di questo “Micor nutriva un grande amore per la Madonna. Ne parlava poco, ma quando ne parlava comunicava qualcosa di vissuto, di sostanziale, che faceva bene all’anima. Fu particolarmente vicino a Chiara e all’Opera nascente, in quella fase spirituale in cui si stagliava il suo ruolo mariano nella Chiesa”.
Anche a chi scrive, egli apparve come una presenza di Maria, “Sedes Sapientiae”. Non è possibile riandare, senza commuoversi profondamente, al ricordo degli incontri con lui vissuti in questa dimensione che andava al di là delle parole, dei concetti, dei ragionamenti. Talvolta ti assorbiva nella sua contemplazione, in un momento dove la realtà di anime, fatte una cosa sola, si comunicava attraverso un semplice sguardo di anime invase da una luce sconosciuta, trasferite con stupore e gioia in un mondo che, agli occhi degli uomini, può parer follia. Una cosa ineffabile che non si può definire: forse essa è già Dio.
“Quando, tanti anni fa, ero a Roma in focolare – scrive M. – indirizzavamo a Micor, come ad un porto sicuro, ogni persona lontana dalla Grazia o titubante nella fede, chiunque insomma fosse bisognoso di sperimentare la misericordia di Dio. Ne tornavano persone rinnovate, illuminate e rafforzate interiormente, sicure dell’amore di Dio che guidava i loro passi.
Micor aveva il dono di scomparire, di essere veramente vuoto, trasparenza di Dio, e quanti lo avvicinavano non provavano ostacolo ad affidargli i loro errori, le loro difficoltà, i loro peccati, perché attraverso di lui si sentivano accolti dall’infinito amore del Padre. Mi colpiva il suo atteggiamento di semplicità, di vera umiltà, di servizio, di amore che si fa tutto a tutti nella maniera più normale. Era, certo, Maria che traspariva in lui”.
Un’altra testimonianza dice: “Ho saputo che N., professore di Storia della letteratura italiana all’Università, seguace dell’ideologia marxista, molto noto per i suoi studi, ne era divenuto amico. Padre Savastano gli aveva prestato dei libri per lui introvabili, e da allora frequentava la sua casa”.
Questa testimonianza ci offre lo spunto per ricordare che Micor era stato presente il 22 agosto 1954 ad un momento speciale della storia del Movimento, nel quale esso si sa consacrava al Cuore Immacolato di Maria e si poneva a sua disposizione perché,“se avesse voluto, se ne servisse anche per il recupero di tutto un mondo divenuto ateo”.
“Di padre Savastano – scrive un altro – ricordo soprattutto la dolcezza, la sapienza, la carità verso tutti, spinta dalla misericordia…”.
Tante altre persone si sono rivolte a padre Savastano e sono state accolte con quella sua semplicità disarmante, che presto ti liberava dai pesi più gravi, ti dava fiducia nelle situazioni più difficili, ti era sempre di sostegno e di aiuto. Tanti erano suoi parrocchiani, tanti altri erano attratti in qualche modo dal l’Ideale; erano laici e laiche, ma anche suore, o sacerdoti e religiosi.
Un dono per la vita religiosa
Ed ora non possiamo non sottolineare quella parte importantissima della sua vita e della sua opera che fu la sua presenza tra i religiosi del Movimento dei Focolari, visti come “corpo”, o “branca dei religiosi nell’Opera di Maria”, come viene ufficialmente chiamata.
Qui la sua opera è stata così mariana che, a più di tre anni dalla sua morte, riesce difficile tradurla in parole. Chi pensa durante il giorno a quella cosa cosi normale, così ovvia, che è la presenza della luce? E chi di noi saprebbe dire che cos’è la luce del giorno?
Non era concepibile un incontro a livello centrale o internazionale senza Micor. Se c’era lui, eravamo sicuri che l’incontro sarebbe riuscito. Se c’era Micor, non poteva mancare Gesù in mezzo a noi.
Si parlava e si parla tra noi di “unità dei carismi”, laddove la parola non significa fusione o confusione e neppure unificazione, bensì unità nella distinzione; la Trinità resta, infatti, il modello di ogni più alta unità.
E Micor era con tutti noi convinto che anche l’unità della Chiesa non debba rimanere nella semioscurità, sia pur tanto sacra, delle catacombe romane, ma risplendere in modo che tutti la possano vedere.
Quando a Roma i religiosi iniziarono ad incontrarsi tra di loro, si riunivano sempre attorno a Micor. Egli è stato anima di tutto il gruppo e si potrebbe dire maestro, se non fosse che “uno solo è il nostro Maestro”. Micor però insegnava come fare perché questo Maestro venisse e si trattenesse in mezzo ai discepoli.
Anche in questo si manteneva in assoluta “unità” con l’Opera di Maria. Non c’era passo fatto dall’Opera, che lui non facesse e ci insegnasse a fare: soprattutto un passo interiore, sicché si può dire che si viveva quasi come se la storia di un’anima fosse diventata la storia comune di tante anime fatte una.
E in tutto ciò – ci ricordava Micor – dovevamo vivere l’attimo presente “con solennità” e amare Gesù crocifisso e abbandonato “sempre – subito – con gioia”. In questo, Micor diveniva talvolta severo, perché la sua misericordia non è mai stata accomodamento indulgente.
Ricordo d’aver sperimentato anche momenti di timore e qualche durezza di Micor, quando egli individuava certi “attaccamenti” e non vedeva una forte spinta a costruire l’unità. Anche quando dovevamo parlare agli altri, ciò che c’era da dire era sempre visto e limato con lui, tanto che dicevamo: “Bruciato al fuoco di Gesù in mezzo”.
Micor amava veramente tutti noi religiosi. Ci diceva il 18 luglio 1969: “Io sono molto contento di trovarmi di nuovo tra voi a contemplare l’amore di Dio perché Dio è Amore; ma Dio è anche Luce: Gesù è la Luce discesa nel mondo. Cosi, più si ama, più si vede chiaro; e se tra noi cresce la carità, cresce l’amore; tra noi, più amiamo e più vediamo. C’è un progresso in questo nostro introdurci nel Regno dei cieli”.
Micor era di prezioso aiuto e di sostegno al religioso che fungeva da perno d’unità della nostra comunione. Questi, timido per temperamento, non si azzardava, per delicatezza, a dirci certe cose. Ma Micor prendeva sempre ardore e coraggio e, lui che viveva la misericordia, pareva senza misericordia verso l’“uomo vecchio”: “N. voleva dire…”, cominciava con dolcezza e sorriso, e cosi proseguiva “fortiter in re, suaviter in modo”.
Venne poi il momento in cui non poté più lasciare Roma. Lo ricoverarono con una diagnosi di “diverticoli”. “Diverticoli?”, gli chiesi. “Sì, ci divertiamo…!”, rispose con la sua solita serenità e buon umore.
L’operazione rivelò che non c’erano molte speranze, ma per il momento fu tratto in salvo. Andò avanti per tutto il 1986 e fino al novembre 1987 quando, rinnovandosi l’allarme, Chiara andò a trovare Micor alla curia generalizia dei Pallottini; la cosa fece tanto piacere anche al padre generale. Là, Micor le fece visitare le stanze che san Vincenzo aveva abitato, le parlò di lui e della sua opera. Chiara volle che le parlasse anche di se stesso, del lavoro fatto fino a quel momento per le nuove Costituzioni.
In quel momento, Micor rivide in una nuova luce, quella vera, tutta la sua vita. Così, infatti, mi disse, e si capiva che era stato trasportato in una dimensione più alta. Si capiva che nella sua anima c’era già l’imminente attesa dell’ultimo atto della sua vita.
Seppe essere “forte” anche sotto la chemioterapia. A poche settimane dalla morte, mi incaricò di procurargli il documento della C.E.I. Comunione e Comunità, perché lavorava ancora per il padre generale.
Seppi, in seguito, che era stato di nuovo ricoverato dopo un’emorragia. In quei due-tre mesi, fui molte volte da lui, oppure lo raggiungevo per telefono. Micor chiedeva sempre per primo: “Come stai?”. Anche di fronte alla morte, era sempre in donazione. Anch’io gli domandavo come stava, e rispondeva sempre: “Bene”. Solo verso la fine cominciò a dire: “Non c’è male”, e capii che stava malissimo.
L’ho visto poi quando non poteva più parlare. Era allora il padre generale a dire di lui: “La sua è una lenta agonia. Non si sa quanto soffra. Lui però dice di no; la vive in unione col Signore. Per noi è una grande perdita, è molto prezioso, molto dedito, molto impegnato. Non sarà facile, poi…”.
Chiara, prima gli telefonò: fu per lui sperimentare una grande, inspiegabile gioia. Poi andò a trovarlo. Di questo incontro ci disse: “Nelle condizioni estreme in cui si trova afferma di avere in cuore non solo la pace, ma una gioia grande intensa che permane e aumenta, una gioia che non sa donde venga. Sentendolo parlare, si ha l’impressione che si tratti di una grazia tutta particolare – grazia legata, come lui afferma, a Maria, all’Opera di Maria, al carisma dunque, che ha vissuto in piena fedeltà. Gioia piena nel cuore Micor che attende la morte. Gioia che la parola di 1 Gv4, 18 spiega: la carità perfetta scaccia il timore”.
Per lui fu un dono grande, come lo fu la messa che il suo padre generale celebrò nella sua stanza con il provinciale ed alcuni confratelli. In essa Micor rinnovò la sua offerta e salutò tutti.
Un focolarino medico che lo visitò domandandogli: “Come stai?”, si senti rispondere: “Mi sento miracolosamente bene. Sono sereno”.
A proposito della messa che il generale aveva celebrato nella sua stanza egli disse: “… Gloria di Dio… realizzazione del disegno… sull’Ordine dei Pallottini”. E aggiunse: “Dite a Chiara che Micor è un nome, una parola realizzata fino all’ultimo” e che “l’unità con Chiara è una cosa vera”.
Arrivano infine i dolori atroci e lo si sente di solo dire: “… Sì! Sì! Eccomi! Eccomi!”. In quest’“eccomi!”, la sua anima è andata incontro allo Sposo, con la lampada accesa. Era il 23 gennaio 1988[2].
[1] “Oggi è nato un bambino” (dalla liturgia natalizia).
[2] Questo articolo è una versione rielaborata di un capitolo del libro di A. Diana (a cura di), Verso la vita, Città Nuova, Roma l991, pp. 119-138.