Giuseppe Maggio: “Per me lavorare è gioia”

Ne è convinto Giuseppe Maggio, uno dei migliori giovani attori italiani. Reduce dall’ottima prova nel film di Eugenio Cappuccio “La mia ombra è tua”.
Foto Marco Alpozzi/LaPresse

Puntuale, elegante, sobrio. È una persona colta e gentile. Fa piacere incontrare Giuseppe, romano, 30 anni il prossimo novembre, una sorella minore, una
fidanzata, Susanna, una famiglia nel quartiere Prati dove vive. Ha iniziato a fare cinema a 17 anni e non ha più smesso. Tanto che lo vedremo in un prossimo film di Pappi Corsicato ed ha appena girato la sua prima serie francese nel ruolo di un paparazzo italiano.

Da ragazzino, dunque, sei stato preso nel cast di “Amore 14” di Federico Moccia. Te l ‘aspettavi?
No, di sicuro. Frequentavo il liceo classico Mamiani, un ambiente difficile, molto politicizzato dagli anni ’70. Non pensavo di fare l’attore, mi sono trovato
nel momento in cui stavano facendo dei provini per questo film e mi hanno preso, credo per il mio aspetto. Era un lavoro commerciale, molto pop. Venivo preso in
giro per questo motivo: una prof intellettuale sparava sul film e su di me, che in fondo facevo questo lavoro come un gioco, senza alcuna preparazione. Ma tutto
ciò mi ha fortificato, mi sono fatto le ossa.

E sei arrivato al film di Cappuccio, uscito a giugno, dove sei Emiliano, un universitario di Firenze molto timido…
È un tipo che vive in una sorta di bozzolo, in una realtà che non dà grandi possibilità, ma non implica neanche grandi sforzi. Forse per la prima volta mi è stata data l’opportunità di interpretare un ruolo molto diverso da quelli cui ero solito. In Italia purtroppo c’è il preconcetto di un sistema di ruoli che abbiamo preso dai tipi fissi della commedia dell’arte. Perciò ci sono attori che interpretano sempre un tipo che gli rassomiglia, una via facile per produttori e registi. Credo che sia pericolosa per il cinema, perché si scelgono attori che durano solo per quel ruolo e per quella stagione e poi non sanno né vogliono rinnovarsi. Invece, lo star system dovrebbe basarsi sul numero più ampio possibile di ruoli, ed è questa la forza del cinema americano dove gli attori interpretano qualsiasi ruolo, anche se poi mantengono i loro tratti di riconoscibilità. Credo che i registi che scelgono gli attori perché sono quel personaggio lì è perché non sono bravi a dirigere gli attori.

Hai cominciato a fare l’attore per caso, ma ora lo fai sul serio, come mai?
Non vorrei essere fatalista, ma credo che ognuno di noi abbia il suo percorso: è importante saperlo riconoscere. Io davvero non so se questo sia il mio, mi piacerebbe, ma non dipende solo da me, è un lavoro difficile che amo follemente, mi piacerebbe che significasse la mia vita, però dipende da tre componenti: il gradimento del pubblico, la volontà di produttori e registi di lavorare con me, e da quanto io sono disposto giornalmente a migliorarmi. Oggi lo sono, domani non lo so: è un lavoro che ti logora, tutti pensano che sia banale. È così se fai solo quel ruolo e non ambisci ad essere altro. Bisogna mettersi in discussione ogni giorno, però io ho avuto questa opportunità: c’era un treno che passava e io ci sono salito. Magari ho fatto bene, forse avrei potuto studiare altro all’università, chissà.

Cosa ti piace al di là del tuo lavoro?
Mi piace arredare case, studiare ambienti, senza la supervisione di un architetto, come ho fatto a casa mia. Questo ideale estetico credo sia qualcosa di innato, una ricerca che alcuni hanno, altri no. L’estetica è un bisogno – non coincide sempre con il bello – che ti tranquillizza, ti soddisfa, ti appaga. Credo di avere dentro di me questa componente che mi guida, che mi ha guidato anche nel migliorarmi, che mi porta ad essere assolutamente critico nei miei confronti.

Nel film di Cappuccio c’è stata una tua interpretazione organica, di un personaggio a tutto tondo.
Il fatto è che ho lavorato con un regista che mi ha diretto nel senso vero del termine, ha costruito con me il personaggio, frutto non solo del mio impegno, ma di una costruzione comune con lui. Negli altri film – anche se ultimamente ero rimasto soddisfatto – ho sempre trovato qualcosa che non andava non solo per un discorso estetico, ma per un ruolo che doveva avere la sua armonia secondo il mio punto di vista. Credo che la differenza che fa un artista, pittore o musicista o altro è quando l’opera d’arte è dotata di un’anima che la rende viva e indipendente. Il mio personaggio nel film di Cappuccio ha una sua anima, è indipendente da me. Per questo finora è stata la più grande soddisfazione della mia carriera, spero che il film dalla sala trovi una seconda vita sulle piattaforme.

Tu hai fatto vari tipi di personaggi nelle fiction come la serie televisiva “Baby” nel 2018 e nei film come la commedia del 2020 “Sul più bello”…
Baby è un lavoro pop, in Sul più bello il mio ruolo è banale, ma si tratta di un lavoro diciamo leggero, che è un parolone, però contiene una tematica delicata in un classico prodotto per adolescenti. Sono lavori che ho reputato buoni, però un conto è essere credibile in una scena, un altro essere organico in un film, in una creazione a 360 gradi, dove devi impostare la gestualità, la camminata, il fisico come nel lavoro di Cappuccio.

Ne “La mia ombra è tua”, infatti, a un certo punto esplodi come farebbe un giovane della tua età…
Nel personaggio di Emiliano ritrovo il mondo dei miei coetanei. Noi, dal 2006 in poi, siamo figli di una crisi costante sotto diversi aspetti: economica,
politica, ambientale, bellica, sanitaria… Le generazioni anteriori almeno avevano la speranza di un futuro migliore, che è venuta meno. E poi la situazione politica ha creato una grande insicurezza specie nei giovani che sono disillusi.

Tu hai anche scritto un romanzo, già in due edizioni, “Ricordami di te”. Di cosa parla?
L’ho ambientato a Parigi a cavallo tra due epoche. Narra di un personaggio di oggi che trova nell’800 una sua versione del passato, viene in contatto con
un mondo che la sua anima aveva distrutto, con una donna. Sono affascinato dall’800 francese, da Parigi. Io sono cristiano, non credo nella reincarnazione, ma
mi affascina pensare che in noi «ci sia un altro che non conosciamo», come diceva qualcuno. Per carattere ho i miei momenti di malinconia, che non è tristezza, per me significa anche profondità.

Cos’è che ti fa veramente felice?
Il rapporto con Susanna, con la mia famiglia, con gli amici – non ne ho tanti – e poi per me lavorare è gioia. Quando lavoro sono felice.

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