Giulio Piscitelli, il fotografo dei migranti

Il New York Times, Vanity fairInternazionale, La Stampa hanno dedicato copertine e speciali alle sue foto, dove si documenta la traversata del Mediterraneo, gli sbarchi, i viaggi nel deserto di migliaia di uomini e donne in fuga dalle tragedie. Lo abbiamo intervistato a New York e vi anticipiamo qualche risposta. Nel numero di maggio 2016 della rivista Città Nuova l’intervista completa
Piscitelli

Giulio Piscitelli è partito da Napoli, la sua città natale, per documentare le rotte dei migranti, ma soprattutto per capire quale storia stava vivendo il nostro Paese, attraverso le migliaia di storie assetate di speranza che sbarcavano sulle nostre coste. Giulio però ha voluto capire cosa succedeva non solo dalla nostra parte di Mediterraneo, ma anche dall’altra parte, ed è diventato un instancabile viaggiatore sulle tracce di chi il viaggio lo ha dovuto scegliere come ultima spiaggia della propria vita. Lo abbiamo incontrato a New York e sul prossimo numero della rivista Città Nuova troverete l'intervista completa. Pubblichiamo intanto qualche risposta inedita.

 

Come è cominciata la tua storia di viaggiatore sulle rotte dei migranti?

«È cominciata nel 2010 in Italia, a Napoli, seguendo le questioni di attualità legate a storie di immigrazione. Solo dopo, nel 2011, il progetto fotografico “From there to here” si è aperto alle esperienze estere e ho cominciato a raccontare cosa stava succedendo anche dall’altra parte del Mediterraneo».

 

E hai persino attraversato il Canale di Sicilia su un barcone…

«Già. Ma di questo ti dico dopo. Quando sono arrivato sano e salvo sulle coste italiane ho sentito l’urgenza di capire le ragioni di queste traversate. Tanti dei miei compagni di viaggio scappavano dalla povertà, tantissimi dalla guerra e poi c’era chi fuggiva perché nel suo Paese non aveva speranze. Il primo motore che muove i migranti è proprio la speranza, la speranza di avere una vita migliore. Non c’è niente di sbagliato nello sperare un futuro diverso per i proprio bambini, nati in Somalia o in Eritrea, per la propria famiglia e per la propria vita. In questi incontri, ho scoperto però che esistono tanti tipi di speranza, perché gli iracheni, ad esempio, sperano di tornare a casa loro, come anche alcuni siriani. Nessuno è contento di scappare. Ma quando hai affrontato la notte in mare, in balìa delle onde, senza orientamento e al freddo tagliente, e sei sopravvissuto, allora sei davvero pronto a tutto. È quello che noi europei non abbiamo ancora capito: quella speranza provata dal mare è resistente a tutto».

 

E tu continui a documentare con i tuoi scatti. Ma ci sono state volte in cui hai lasciato la macchina fotografica da parte?

«Mi è successo sulle isole greche, quando assieme agli altri colleghi abbiamo deciso di non scattare e aiutare uomini, donne e  tanti, tanti bambini a scendere dalle barche. Dopo ho ripreso in mano la macchina e ho continuato a scattare, se non lo avessi fatto la mia presenza non sarebbe stata giustificata. Un altro episodio mi è accaduto nel deserto, quando lavoravo a un reportage per Vanity fair: con la giornalista ci siamo fermati a soccorrere tre macchine di persone senza acqua e cibo. Abbiamo prestato soccorso, ma ho anche scattato le foto, perché in fondo io mi trovo in questi posti per documentare cosa accade e non posso dimenticarlo, ma non posso neppure non dare una mano».

 

L’intervista continua sul numero di maggio della rivista Città Nuova.

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