Giulio Forges Davanzati, rigore e rispetto dell’essere attore

Intervista al giovane e promettente attore romano, impegnato a teatro nel ruolo di Edmond, nel “Re Lear” di Michele Placido. «È un mestiere in cui la relazione con gli altri è fondamentale. E cresci di pari passo, umanamente e professionalmente»
Giulio Forges Davanzati

Un momento preciso in cui ha formalizzato la decisione di fare l’attore non c’è stato. Lo ha sempre pensato e desiderato, fin da piccolo. Giulio Forges Davanzati, volto giovane e promettente talento del teatro, della televisione e del cinema, in famiglia ha sempre respirato aria di spettacolo trasmessa dal nonno Domenico – noto produttore cinematografico che ha lavorato, tra gli altri, con Visconti e Antonioni –, anche se non l’ha conosciuto. Un corso di teatro dopo il liceo, quindi, a 18 anni, l’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. «L’Accademia, molto formativa, mi ha insegnato il rispetto professionale e umano per il lavoro e per gli altri: colleghi, registi, tecnici. E il rigore. Anche nel non arrivare in ritardo. Per due anni sono stato totalmente immerso a imparare che quasi non ho visto la luce del sole fuori da quell’edificio. Vivevo con una dedizione assoluta, ed ero contentissimo». Finita l’accademia, il giovanissimo Giulio viene subito catapultato sul palcoscenico.

Hai esordito accanto a Giuliana De Sio ne “Il laureato”.
«Sono stato fortunato. Iniziare subito, a vent’anni, con un ruolo da protagonista, è una grande responsabilità. Lo stress era tanto. Ma sia Giuliana che il regista hanno fatto un bel lavoro su di me, con pazienza, aiutandomi a tirare fuori le mie potenzialità. È importante il contesto in cui lavori e le persone che hai attorno».

Ti abbiamo visto ultimamente, oltre che al cinema, in parecchie fiction. In televisione hai iniziato nella soap opera “Un posto al sole”.
«Accettare un lavoro vuol dire sposare totalmente il progetto. Non importa se si sta facendo tv, fiction, cinema: è uguale. L’importante è creare la squadra. Gli stimoli poi si trovano sempre. Perché c’è da imparare in ogni cosa che fai. Con "Un posto al sole", tanto di cappello a chi mi ha messo a 22 anni in condizione di fare 15 scene al giorno, dove dovevo parlare tanto. È stata una grande palestra».

Dall’autunno, e fino a febbraio, sei impegnato a teatro nel “Re Lear” di Shakespeare, con la regia di Michele Placido e Francesco Manetti, nel ruolo di Edmond, il fratello cattivo, al quale dai un’intensa e credibile interpretazione.
«Michele ha scommesso su di me. Anche dopo aver debuttato, e durante il percorso, si è continuato a lavorarci insieme. L’approfondimento vero avviene quando poi ci si confronta col pubblico. Non è stato facile relazionarmi con la sfacciataggine di questo personaggio sgradevole. Edmond prende smaccatamente in giro gli altri sapendo di avere un potere in più rispetto a loro. Percepisce la realtà di un mondo che si sta distruggendo da solo, consapevole che ci sarà un riciclo, un ricambio, e che ci sarà la possibilità di prendere il potere. Poi verrà corrotto anche lui per la voglia sfrenata di prendere e di prevaricare sugli altri. Mette sulla pubblica piazza la parte oscura di tutti, anche di Edgar, il fratello buono».

Quali indicazioni hai avuto dai registi?
«Michele ha lavorato molto sulla mia fisicità, voleva che fossi come Riccardo III, un personaggio malato. Si è lavorato a tirare fuori l’aspetto oscuro, e vitale, del personaggio. Egli è l’unico che ha un rapporto col pubblico, che cerca di sedurlo, che cerca una complicità».

C’è, mi sembra, un’importante chiave di lettura che avete individuato nel testo.
«Sì, il fatto che Lear, pur volendo dare il potere alle energie più giovani dividendo il suo regno tra le tre figlie, poi in realtà non abdica. Assegna dei territori, ma lui rimane il re. È quasi una divinizzazione del potere. Dietro il gesto apparentemente magnanimo c’è ancora il dittatore che dice: “Lascio tutto a voi, ma io rimango il re”. Quando la figlia Cordelia, quella che realmente gli vuole bene, non gli manifesta più a parole il suo affetto, lì inizia la pazzia di Lear».

Come ti sei preparato per calarti nel personaggio?
«Credo molto al fatto che non si è mai per caso in una situazione. Per cui ero convinto che c’era un motivo per cui mi era stato assegnato quel personaggio: significava riuscire a farlo, e poter portare il mio contributo. Quindi mi sono messo nelle mani dei registi, anche quando ancora non si sapeva dove ci avrebbe portato l’indagine su Lear. Si capiva man mano, e insieme, sentendoci tutti coinvolti in questa ricerca».

Giovanissimo, con già avviata una bella e promettente carriera. In cosa senti di dover crescere, maturare?
«In tutto. Un mio limite è l’impazienza. Se una cosa non mi riesce a breve, mi arrabbio. Ogni volta devo fare un lavoro su me stesso per dirmi che devo arrivarci con calma. Sono un fan del risultato. E invece no: ci vuole il percorso, che è importante, per arrivare al raggiungimento del personaggio a tutto tondo».

Facendo teatro hai scoperto delle cose di te stesso?
«Il teatro è un percorso di autoanalisi eccezionale, perché ti confronti con te stesso. Mettiamo delle maschere che prendono vita. E nella maschera viene sempre fuori qualcosa di te stesso. Questo è affascinante, ma fa anche paura».

Cosa ti piace di questo mestiere?
«Tante cose. Si vengono a creare, dal nulla, delle famiglie; e ci si confronta con attori di maturità diverse. È un mestiere in cui la relazione con gli altri è fondamentale. E cresci di pari passo, umanamente e professionalmente. È qualcosa nel quale devi portare necessariamente il tuo vissuto, altrimenti diventa una cosa sterile e non serve a nessuno».

Fai teatro, cinema, televisione. Ne convieni che il vero banco di prova, per un attore, è il palcoscenico?
«Certamente. Nel cinema il film è soprattutto in mano al regista e al montatore. A teatro il regista, con la sua visione, è sì importantissimo, però poi sei tu che stai lì sul palcoscenico, senza rete, e devi trovare un rapporto con il pubblico, catturarlo, essere credibile».

Qual è il pericolo maggiore per l’attore?
«Una delle trappole più grandi è la vanità. Perché è ovvio che chi fa questo lavoro ha un ego pazzesco, da colmare. Anche se hai delle timidezze, delle insicurezze, ma sei portato a stare sul palcoscenico, dietro l’angolo c’è sempre la vanità in agguato. Se tutto si riduce a guardarsi e a piacersi, a cercare l’applauso – in scena si vede eccome! –, alla lunga non reggi. La vanità non fa mai un buon servizio all’attore».

Con alcuni amici di accademia, Andrea Trovato e Stefano Vona Bianchini, avete dato vita a un’associazione  culturale, "Carmentalia", con la quale avete fatto alcuni spettacoli.
«Teniamo molto al gruppo. Ci siamo rivisti da poco per nuovi progetti perché il gruppo funziona. È lì la forza: nel ritrovarsi a lavorare con persone con le quali condividi lo stesso gusto teatrale, artistico, anche diverso, dove però ci si confronta. L’importante è stare uniti. Da soli si fatica molto e bisogna essere anche autori. Bisogna insistere nello stare insieme perché è l’unico modo per portare avanti un’idea, un progetto, e condividerlo con gli altri».

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