Giulini – Lo spirito sul podio

Sobrio e misurato nella vita e nell’arte, Carlo Maria Giulini se n’è andato verso quel Cielo in cui credeva, silenziosamente, a 91 anni. Ricordo una delle sue ultime volte all’Auditorio Pio a Roma, per la stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, dove ogni anno tornava dal 1944. Dirigeva con la calma solennità di un canto secolare, la figura alta, dritta, il fremito sottile degli occhi ad esprimere il lavoro della mente concertante, la bocca lievitante in un canto sussurrato, e quel gesto quasi impercettibile con cui accompagnava l’orchestra. I suoi tempi con gli anni erano diventati lenti, contemplativi. La critica accentuava il lato mistico, sacerdotale, spirituale delle sue interpretazioni, con quelle semplificazioni che dicono qualcosa ma forse non colgono che poco dell’arte di un interprete di straordinario spessore quale era Giulini. Che non si considerava un direttore, ma uno che fa musica con altri. Era verità, non falsa umiltà. Scottante in un tempo in cui i direttori gigioneggiano talvolta in modo pesante, mettendosi spesso al posto del compositore che per interpretare dovrebbero prima conoscere studiare amare. Giulini, nato a Barletta ma nordico di origini e di carattere, come violista aveva suonato con i grandi del primo Novecento, dedicandosi poi – aiutato da De Sabata – alla direzione: memorabile La traviata scaligera con la Callas, le incisioni dell’Italiana, di Rossini, del Don Carlo e Falstaff verdiano, delle Nozze mozartiane. Nel campo sinfonico eccelleva in Mozart, Brahms, Wagner, Bruckner e Bach di cui ricordo una Messa in si minore a Roma di un afflato spirituale, di una bellezza unica. Man mano che la musica progrediva, la sala aveva l’impressione di salire, con progressiva dolcezza. Un’ascensione, impercettibile, ma reale. Comeuomo, il Maestro conosceva il dolore: la malattia e la morte della moglie Marcella, che lo avevano provato, avevano rafforzato in lui lo scavo delle partiture, sempre più essenziali, acute come una cattedrale gotica. Giulini coglieva il mistero che sta dietro all’arte del dirigere con una sorta di verginale pudore mai dismesso. Si meravigliava di essere un altro quando dirigeva, tanto da confessare che, solo dopo, ritornava ad essere il Giulini di sempre. Dirigeva per necessità naturale, non per studi particolari o ambizioni divistiche. Tecnica precisa, rapporto cordiale con l’orchestra – Siamo tutti una cosa sola, disse ai Filarmonici di Los Angeles – ma soprattutto un grandissimo amore. Forse è questa la parola-chiave su quest’uomo schivo, interiore, capace però di fuoco e di brio. Generoso con i giovani fino all’ultimo. Quando s’era accorto che dirigere era per lui ormai troppo, aveva rinunciato. Con me aveva un appuntamento a Roma, per Bach e un’intervista. Si stava, l’ultimo suo concerto ceciliano, sul retro dell’Auditorio Pio. Un’auto stava per venirmi addosso. Alto e svelto, mi afferrò e mi mise di lato. Un gesto indimenticabile di cui gli sono grato. Ecco chi era Giulini, uomo e artista. Peccato che l’Italia, presa dall’effimero e dalla saccenteria culturale, abbia fatto troppo poco per ricordarlo, con la consueta ingratitudine per i suoi artisti migliori.

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