Giulia Cecchettin: essere uccise con 75 coltellate non è crudeltà?
Abbiamo fiducia nella giustizia, quindi aspetteremo la sentenza per capire come mai a Filippo Turetta, il “bravo ragazzo” che ha ucciso la sua ex fidanzata Giulia Cecchettin con 75 coltellate, non sia stata inflitta l’aggravante della crudeltà. Nell’immaginario collettivo anche un decimo di quei colpi è una forma di tortura, ma – spiegano gli esperti di diritto – secondo una sentenza del 2015 della Corte di Cassazione, l’aggravante non è legata al numero di colpi inferti dall’assassino.
In pratica, “nel delitto di omicidio (in questo caso femminicidio, ndr) volontario, la mera reiterazione dei colpi inferti (anche con uso di arma bianca) non può determinare la sussistenza dell’aggravante dell’aver agito con crudeltà se tale azione non eccede i limiti connaturali rispetto all’evento preso di mira e non trasmoda in una manifestazione di efferatezza, fine a sé stessa”. 75 coltellate, secondo la gente comune, eccedono decisamente l’obiettivo dell’uccisione di Giulia.
Turetta, comunque, è stato condannato all’ergastolo per omicidio aggravato dalla premeditazione, per sequestro di persona e occultamento di cadavere. Non è invece stata accolta nemmeno l’aggravante del reato di stalking. Eppure, Filippo mandava a Giulia anche più di 300 messaggi al giorno. Un numero che avrebbe fatto soccombere chiunque e alla fine anche la studentessa aveva detto basta. Basta a quella tortura quotidiana, a quel modo di vivere, a quella storia che la asfissiava.
Lo stalking, secondo la legge, diventa un’aggravante quando la vittima ha paura per la sua incolumità, vive un perdurante e grave stato di ansia e cambia le proprie abitudini di vita. Senza voler fare un processo nel processo, alcune frasi dal diario di Giulia sono illuminanti. La ragazza, evidentemente matura e indipendente, era ancora innamorata di Filippo, ma aveva capito che lui non era la persona per lei e per autoconvincersi, aveva stilato un elenco dei motivi per lasciarlo.
“Faccio una lista di cose che non andavano perché devo autoconvincermi di aver fatto la cosa giusta, anche se mi manca e sto morendo dentro al pensiero di farlo soffrire”. Tra i motivi per lasciare Filippo leggiamo: “…Si lamentava quando mettevo meno cuori del solito. Necessitava di messaggi molte volte al giorno. Ha idee strane riguardo al farsi giustizia da soli per i tradimenti, la tortura, robe così. Quando lui ha voglia tu non puoi non averne se no diventa insistente… Tendenzialmente i tuoi spazi non esistono. Lui deve sapere tutto, anche quello che dici di lui alle tue amiche e allo psicologo. Durante le litigate dice cattiverie pesanti e quando l’ho lasciato mi ha minacciato solo per farmi cambiare idea… Tutto quello che gli dici per lui è una promessa e prova a vincolarti così. Una volta si è arrabbiato perché scesa dall’autobus volevo fare 5 minuti a piedi da sola mentre lui era da un’altra parte senza aspettarlo…”. Emergono le parole “minacciato”, “farsi giustizia da solo”, “dice cattiverie pesanti”… e fanno riflettere.
Nei mesi scorsi Fondazione Libellula, che si impegna contro la violenza sulle donne e le discriminazioni di genere, ha pubblicato la ricerca Teen 2024 dal titolo “Senza confine. Le relazioni e la violenza tra adolescenti”. Nello studio (che approfondiamo sul prossimo numero della rivista Città Nuova) alcuni docenti dell’Università Cattolica di Milano spiegano che tantissimi ragazzi e giovani commettono e subiscono violenze senza rendersene conto. Tra i reati considerati, ci sono gli “Atti persecutori (stalking, che riflette un ampio spettro di comportamenti persecutori reiterati nel tempo), che suscitano nella donna la sensazione di essere costantemente controllata, promuovendo emozioni negative, come ansia e paura (esempi: comunicazioni indesiderate e intrusive rivolte alla donna o alla sua cerchia sociale, come familiari, amici e amiche; contatti indesiderati e controllanti, come pedinamenti, appostamenti, accessi alla casella di posta o ai profili della donna sui social network; atti intimidatori, vale a dire minacce verbali, far recapitare oggetti con significato intimidatorio)”.
Per il 40% delle e degli adolescenti intervistati per la ricerca, “telefonare o inviare insistentemente messaggi a una persona che ti piace non è una forma di violenza”. E invece lo è ed è necessario rendersene conto. Eppure, se di fronte a 250mila messaggi di Turetta inviati a Giulia in meno di 2 anni, se di fronte ai suoi controlli ossessivi, non è stata riconosciuta l’aggravante dello stalking, come farà un genitore a spiegare al figlio o alla figlia che quel comportamento è sbagliato? Se la legge che i magistrati applicano è sbagliata, allora andrebbe cambiata!
Mi viene in mente anche Angela, una delle tre giovani protagoniste del documentario “Non ne vale la pena” realizzato da Unieuro e polizia di Stato nell’ambito del progetto #cuoriconnessi, finita davanti ad un giudice e poi messa alla prova per sette mesi per quelli che lei credeva fossero scherzi telefonici e che si sono rivelati essere molestie telefoniche. Alla presentazione a Roma del docufilm, le forze dell’ordine hanno invitato gli studenti presenti a non commettere questi reati e, se li subiscono, a denunciarli. Ma quali sicurezze ci sono?
“Una sentenza giudiziaria – ha scritto Elena Cecchettin su Instagram – non corrisponde sempre alla realtà dei fatti. Si chiama verità giudiziaria, ed è quello che viene riportato dal verdetto. E basta. Non toglie il dolore, la violenza fisica e psicologica che la vittima ha subito. Ciò che è successo non sparisce solo perché un’aggravante non viene contestata, o più di una. E non toglie nemmeno il dolore e l’ansia che ho dovuto subire io personalmente in quanto persona vicina a Giulia. Inevitabilmente le persone intime alla vittima vengono trascinate negli stati di ansia e turbamento”.
“Il non riconoscimento dello stalking (non parlo dell’altra aggravante perché la situazione si commenta da sola)– spiega la sorella di Giulia – è una mancanza di rispetto per la famiglia della vittima” nonché “ un’ennesima conferma che alle istituzioni non importa nulla delle donne. Sei vittima solo se sei morta. Quello che subisci in vita te lo gestisci da sola. Quante donne non potranno mettersi in salvo dal loro aguzzino se nemmeno nei casi più palesi viene riconosciuta una colpa”.
Duro anche il commento rilasciato dal papà di Giulia, Gino Cecchettin, a Repubblica. “Leggeremo le motivazioni, perché se con migliaia di messaggi e 75 coltellate non sono riconosciuti lo stalking e la crudeltà, allora devo capire cosa sono queste aggravanti. Per me è difficile perdonare, soffro ancora troppo. I femminicidi non si fermeranno con le sentenze, ma solo con il rispetto della vita del prossimo”.
Leggendo le parole dei familiari di Giulia vengono in mente quelle pronunciate di recente da alcuni rappresentanti istituzionali. Francesca Ghio, consigliera comunale di Genova della lista Rosso Verde, ha denunciato, nell’aula consiliare, di aver avuto 12 anni “quando sono stata violentata fisicamente e psicologicamente tra le mura di casa mia”, nel cuore della “Genova bene”, da un dirigente genovese. La sua drammatica testimonianza è stata accolta dai colleghi consiglieri con la stessa indifferenza con cui è stato trattato l’argomento all’ordine del giorno: la violenza sulle donne.
Altro consesso, altre testimonianze. Alla convention di Noi moderati a Roma la deputata Martina Semenzato ha spiegato che “Delle tredici partecipanti al dibattito sulla violenza di genere, in sei hanno raccontato la propria storia di abusi”. Si parla di professioniste: scrittrici, avvocate e imprenditrici, che hanno subito molestie fisiche o psicologiche.
Violenze avvenute “in qualche caso in famiglia, in qualche altro da persone che ritenevano amiche o da sconosciuti”. “Il dibattito – ha commentato Semenzato – includeva in tutto quattordici persone, di cui solo un uomo. A dimostrazione di quanto sia considerato ancora un argomento prettamente femminile”.
E purtroppo emerge ancora di più la veridicità della denuncia del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quando ha spiegato che “Quanto fatto finora non è sufficiente a salvaguardare le donne, che continuano a vedere i loro diritti violati. È un’emergenza che continua. Si tratta di madri, sorelle, figlie, persone con sogni e progetti che vedono violato il diritto di poter vivere una vita libera e dignitosa. Non ci sono scuse accettabili a giustificazione della violenza di genere”.
Per Mattarella occorrono azioni concrete. “È fondamentale – ha aggiunto – lavorare per eradicare i pregiudizi e gli atteggiamenti discriminatori che rendono ancora oggi le donne più deboli nella società, nel lavoro e nella famiglia. Le istituzioni, le forze della società civile devono sostenere le donne nella denuncia di qualsiasi forma di sopruso, offrendo protezione e adeguato supporto. È un valore per l’intera società far sì che siano pienamente garantiti i diritti umani dell’universo femminile”.
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