Giulia e Carlo, una vita per gli altri
A Torino, nello stupendo Palazzo Barolo, si possono ancor oggi visitare le stanze che hanno ospitato Silvio Pellico, autore de Le mie prigioni. Il libro che, per ammissione di Metternich, danneggiò l’Austria più d’una battaglia persa. Che cosa ci faceva lì Pellico? Dopo la detenzione nella fortezza dello Spilberg, dopo aver riabbracciato la fede cristiana e aver pubblicato le sue memorie di prigionia, il patriota era diventato segretario dei coniugi Carlo Tancredi Falletti e Giulia Colbert, marchesi di Barolo. Una coppia che ha lasciato il segno a Torino.
Quelli erano anni ruggenti per la città sabauda. Nello stesso periodo si trovavano a incrociare le loro strade tipi come Cavour, Cafasso, Cottolengo, don Bosco. Negli stessi anni si faceva l’Italia, se ne proclamava l’unità e Torino ne diventava capitale. In mezzo a quei personaggi e quei grandi eventi storici, c’era anche lei, Giulia Colbert. Una donna straordinaria. Lei e suo marito si erano conosciuti alla corte di Napoleone. Erano ricchi, colti, parlavano diverse lingue, avevano una fitta rete di relazioni internazionali. Ma allo stesso tempo erano sinceramente religiosi e sentivano l’urgenza per l’impegno sociale. Non riuscivano ad avere figli. Si dedicarono anima e corpo agli altri.
Già nel 1814, Giulia, che allora aveva ventinove anni, cominciò ad occuparsi delle carcerate. Durante le visite alle prigioni femminili maturò il suo programma: ci doveva essere un trattamento più umano delle detenute, si dovevano incrementare gli standard di igiene, si doveva dare loro un’istruzione religiosa per migliorarne l’esistenza morale, si doveva insegnare loro un lavoro, indispensabile per il recupero nella società. Lei stessa si occupava di fornire l’istruzione religiosa e di vendere i prodotti delle loro attività. Diceva: «Non basta punire il malvagio togliendogli la libertà di fare il male. Bisogna insegnarli a fare il bene».
Dati i suoi agganci con la politica, ottenne nel 1821 un dispaccio ministeriale con cui le veniva messa a disposizione la cosiddetta “Prigione delle Forzate” per trasformarla in un carcere modello. La marchesa riuscì a fare in modo che le donne recluse in altre tre prigioni cittadine fossero trasferite lì. Il regolamento del carcere fu discusso da lei stessa con le detenute e approvato con il consenso di tutte.
Giulia si occupò di assisterle anche dopo la scarcerazione. Nel 1823 fondò l’Istituto del Rifugio per le ex carcerate e per le donne “traviate e penitenti” che ne chiedessero l’ammissione. Qui potevano passare un paio d’anni in lavoro e preghiera, uscendo poi per sposarsi, per andare a servizio in qualche famiglia o per lavorare.
Nello stesso anno 1823, lei e suo marito ebbero un’intuizione geniale. Diedero vita a quello che verrà chiamato il “Distretto Sociale Barolo” che poi convergerà nell’Opera Barolo, fondata dalla Marchesa nel 1864, per diventare lo strumento con cui portare avanti l’azione sociale iniziata con il marito Carlo, ormai morto da diversi anni. Il Distretto Sociale consisteva in una serie di immobili messi a disposizione dai coniugi Barolo per sostenere opere di solidarietà, di impegno sociale, politico e culturale.
Rappresentava allora un unicum nella città di Torino, ed anche nel nostro Paese che cercava di formarsi. E rappresenta un rarità ancora oggi, dopo 200 anni. Perché il distretto è ancora vivo e consiste in 14 edifici nei quali hanno sede 17 realtà civili e ecclesiali, dedicate a opere sociali che aiutano circa 15.000 persone ogni anno. Nel distretto lavorano più di 100 operatori e 400 volontari. Un’opera non da poco, di cui quest’anno la città di Torino celebra con orgoglio i 200 anni dalla fondazione.
Poco dopo la proclamazione del Regno d’Italia, nel 1862, la marchesa mise la prima pietra per la costruzione della chiesa di Santa Giulia, da lei stessa finanziata. Non vide la fine dei lavori. Ma ora le sue spoglie giacciono lì, accanto a quelle del marito. Entrambi sono stati dichiarati venerabili dalla Chiesa cattolica.
Nella loro vita, da autentici piemontesi, furono riservati, un po’ schivi, ma sempre spinti da quella frase di Giulia: «Doniamo senza calcolare e Dio calcolerà per noi». La loro opera è continuata senza far scalpore. Come fa il bene. Ma si inserisce pienamente nel momento grandioso di metà Ottocento, di quelli che passarono alla storia come i santi sociali torinesi.
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