I “girasoli ucraini” di Marija Prymačenko
«Una volta, da ragazzina, stavo accudendo un branco di oche. Quando sono arrivata con loro sulla sponda del fiume, dopo aver attraversato un campo costellato di fiori, ho cominciato a disegnare fiori veri e immaginari con un bastoncino sulla sabbia… In seguito ho deciso di dipingere le pareti di casa mia usando pigmenti naturali. Dopo di che non ho mai smesso di disegnare e dipingere».
Così, semplicemente, Marija Oksentiïvna Prymačenko, pittrice ucraina ammirata anche fuori dai patrii confini, riassumeva la sua parabola artistica. Nata nel 1909 da famiglia contadina, visse sempre nel suo villaggio di Bolotnja, nell’Oblast di Kiev, a soli trenta chilometri da Chernobyl. Lì Marija trasferì in opere ad acquerello, tempera e olio i motivi decorativi appresi dalla madre ricamatrice insieme ai suoi sogni, ai racconti fiabeschi e ai simboli ancestrali della sua cultura contadina, tutti però rielaborati con sbrigliata fantasia e potenza coloristica.
Dalla smagliante sua tavolozza nascevano alberi, fiori, frutti, uccelli, animali marini e terrestri, domestici e selvatici impreziositi da decorazioni floreali: creature quali non se n’erano mai viste in natura, come una seconda creazione la cui fantasmagoria lascia stupiti, incantati.
Autodidatta divenuta col tempo padrona della sua tecnica, Marija cominciò a produrre opere diverse, non solo per le maggiori proporzioni del supporto: ora erano anche scene di vita quotidiana, dove immerse in una natura lussureggiante facevano la loro comparsa le figure di persone (ma gli animali degli inizi non tradivano già negli occhi e nei tratti del muso un che di umano?). E sempre quella vitalità, quella festa, quel tripudio di colori, quello sguardo positivo sugli esseri che esprimeva e comunicava gioia. Anche là dove, nel paesaggio, s’inserisce la nota di dolore rappresentata da un orante davanti ad una tomba.
Il dolore… Fin dall’infanzia, Marija l’aveva conosciuto: riuscì infatti a frequentare la scuola solo per quattro anni, causa la poliomielite i cui postumi l’avrebbero afflitta per il resto dell’esistenza. E che dire delle tragedie toccate alla sua patria? Dall’Holodomor, il genocidio per fame provocato da Stalin che fece oltre sei milioni di morti, alle due guerre mondiali, di cui la seconda le portò via, assieme al fratello ucciso dai nazisti, colui che doveva sposare, caduto sul fronte in Finlandia mentre lei era incinta.
Senza contare la fatica di sopravvivere, il duro lavoro dei campi, la difficoltà di trovare l’occorrente per i suoi quadri. Sotto quelle prove tremende Marija interruppe, ma solo per poco, il suo fecondo lavoro artistico. Per reagire, infatti, attinse proprio dalla sua arte la forza per riprendersi e andare avanti. Ciò che stupisce è che nella nuova produzione nulla di questi eventi luttuosi traspaia.
A notare per prima il suo talento era stata l’artista Tetiana Floru, che nel 1935 l’aveva invitata a lavorare presso il Laboratorio sperimentale centrale del Museo di arte ucraina di Kiev. Affermatasi poi come una esponente importante della pittura popolare della sua terra, Marija ricevette premi prestigiosi e vide le sue opere esposte a Mosca, Leningrado, Montréal, Praga, Varsavia, Sofia. Vincitrice a Parigi, nell’Esposizione internazionale del 1937, della medaglia d’oro, fu ammirata per la sua forza espressiva da Picasso, Matisse e Chagall. E nel 2009, dieci anni dopo la morte, dichiarata dall’Unesco artista dell’anno.
Prima che scoppiasse la guerra, la maggior parte delle sue creazioni erano conservate nel Museo Nazionale di Arte decorativa popolare ucraina. Oggi si spera che siano in salvo in qualche caveau insieme alle altre collezioni. Una ventina esposte a Ivankiv, città a nord-ovest della capitale, sembravano andate distrutte nell’incendio del piccolo museo locale ad opera dei russi. Dalle dichiarazioni di una pronipote della pittrice risultano invece al sicuro: un uomo del posto, a rischio della vita, le ha sottratte alle fiamme, ciò che dice l’alta considerazione degli ucraini verso la loro artista.
Oggi circa sessanta lavori della Prymačenko, “profughi” dal Museo nazionale “Taras Shevchenko” di Kiev come tanti ucraini costretti ad abbandonare la loro patria, sono ospitati a Trento negli spazi del rinascimentale Palazzo delle Albere, per la mostra I girasoli ucraini. Altri quindici dialogano a Viterbo, nel Museo dei Portici del Palazzo dei Priori, con una selezione di opere di Bonaria Manca, la pittrice-pastora sarda che scelse Tuscania come luogo di vita e di arte. Titolo della mostra, aperta come l’altra fino al 4 giugno, è: Se so ricamare, saprò anche dipingere.
In quella di Trento ho provato anch’io l’incanto dei “girasoli ucraini” e di altre composizioni festose dai colori squillanti, in netto contrasto col grigiore funereo della guerra. Diverse di esse sono accompagnate da brevi frasi apposte dall’umile artista sul retro del supporto. Come questa: «Chulindra è felice che cresca una buona carota: una bellezza rossa».
In effetti la figura femminile, la cui acconciatura del capo ricorda la Lucia dei Promessi sposi, esibisce una enorme coloratissima carota. Altre risultano un po’ sibilline: «Lo spaventapasseri suona il piffero. Io ero sdraiato al sole con la barba rossa in mano». Lo spaventapasseri e il piffero ci sono, ma il resto? Misteriosa anche quest’altra: «Sulla montagna sta bruciando il fuoco».
Nel dipinto relativo, un uomo dorme su un prato in mezzo a dei girasoli, mentre un cavallo sembra vegliarlo. Dov’è quel fuoco? Forse nel sogno del dormiente? Non manca di humor la pittrice, se nel rappresentare «un ubriacone che giace per strada» gli ha dipinto sulla guancia una vespa, mentre quello che sembra un grosso rospo o una lucertola gli sta sfiorando il volto. In un’altra scena «la madre di Valerikova, seduta presso casa, tende le mani verso le tracce lasciate sul suolo dal figlio che non c’è più»: dovrebbe ispirare tristezza, senonché questa è attenuata dall’esuberanza dei colori.
Come non esser grati a questa figura-simbolo della cultura ucraina per lo stupore e la gioia che ci regala? Possa questa gioia essere, per la pace presto ritrovata, anche quella della sua gente. Intanto, sui social, in molti stanno condividendo un suo dipinto del 1982 intitolato significativamente Una colomba ha spiegato le ali e chiede pace.
—
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it
—