Se gioventù potesse (lavorare)
Studiano per anni, fanno master, trascorrono periodi all’estero, imparano le lingue. E poi? Poi poco o nulla. Appena cominciano a bussare seriamente al mondo del lavoro, tutto comincia ad apparire inutile: mandare curriculum serve a poco, arrivare a un colloquio è un miraggio, pensare di scappare all’estero è inevitabile.
Siamo da pochi anni ricomparsi nell’elenco dei Paesi di nuova emigrazione, a dispetto di ogni falsa retorica che ci racconta come un Paese invaso dai migranti. I giovani sono costretti ad andarsene e questa è una grande responsabilità collettiva di cui dobbiamo farci carico.
Sempre più spesso incontro giovani che, di fronte al muro invalicabile del lavoro, cedono all’inganno di ripassare dal via, come in un gioco dell’oca ozioso e molle. Chi si iscrive ad una seconda laurea, sperando la seconda volta di essere più fortunato, chi corteggia per anni un dottorato di ricerca, chi spende cifre altissime per frequentare l’ennesimo master, promessa di accesso a nuove e più fortunate giocate. Che il patto tra le generazioni si sia inceppato si vede soprattutto dal comportamento degli adulti “occupati”. Di fronte all’incertezza lavorativa – che in parte condividono con le nuove generazioni – si chiudono, marcano il territorio, presidiano rendite e posizioni.
Lavorare è un privilegio e un lusso; i giovani ne sono esclusi e temuti come un pericolo. Questa spirale perversa va spezzata. Non è facile ma dobbiamo provare tutti a rompere le righe.
Stimoliamo al lavoro i ragazzi fin da giovanissimi. La sequenza “prima studio, poi lavoro” oggi non funziona più. Sapersela cavare, acquisire disinvoltura, avere relazioni positive con gli adulti sono competenze fondamentali. Un mese di lavoro in una cascina agricola o in una gelateria valgono più di un master a pagamento (eccezioni sempre possibili!).
Se abbiamo responsabilità educative e formative, interroghiamoci con più serietà sull’orientamento dei ragazzi al lavoro. Molte delle loro scelte future dipendono da noi, dalla nostra capacità di proporre percorsi possibili, di suscitare curiosità e competenze fuori standard. Un modello scolastico che premia omologazione e conformismo è il peggior regalo che possiamo fare ai ragazzi.
Apriamo i nostri studi professionali, le nostre aziende, i nostri laboratori alla partecipazione dei giovani. Lo so che siamo già tutti impegnatissimi, che chi ha lavoro ne ha troppo, ma dedicare una parte del tempo ad attività di formazione sul modello della bottega, è cruciale e rigenerativo anche per noi. Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse, diceva un vecchio motto francese.
Ribaltiamolo. Se gioventù potesse (lavorare), se vecchiaia sapesse (che ricchezza è lavorare con i giovani), potremmo tutti stare meglio. Condividere il lavoro è più che condividere il pane.