Giovanni Anzaldo: il teatro è scambio e stare insieme

Portato al successo dal film "Il capitale umano" di Paolo Virzì, nell’ultimo anno è stato protagonista di numerosi film. Di prossima uscita, "Era d’estate" di Fiorella Infascelli, e "Assolo", di Laura Morante. Sul piccolo schermo lo vedremo nella fiction "Task force45" con la regia di Beniamino Catena. A teatro è protagonista di “Mar Del Plata”, storia vera durante la dittatura argentina
Giovanni Anzaldo

La passione per la recitazione probabilmente gli viene dai genitori, proprietari di un negozio di macelleria. »Credo che più commediante di un commerciante non ce n’è. Ricordo che da piccolo vedevo la gente entrare per comprare una fettina di carne e uscire con la borsa piena, per la capacità di mio padre di improvvisare e convincere a comprare. Insomma, un teatrante. Recitavo fin dalle elementari. In terza superiore ho fatto una scuola di teatro, e lì è cominciata a concretizzarsi l’idea di voler fare l’attore. Poi sono entrato alla Scuola dello Stabile di Torino dove sono stato tre anni».

 

Ma la scuola vera Giovanni Anzaldo l’ha fatta sul campo, quando, ancora alle prime armi, Alessandro Gassman lo scrittura per il fortunato spettacolo Roman e il suo cucciolo. «Abbiamo girato per tre stagioni per più di trecento repliche. Anni bellissimi». Se alla Scuola il giovane attore torinese impara la disciplina e, con l’insegnante Mauro Avogadro, l’importanza di ogni battuta, “ognuna con un suo peso specifico”, dall’incontro determinante con Gassman apprende l’importanza di recitare “in primissimo piano”. Come al cinema.

 

«È vero che in teatro, in spazi grandi, si ha bisogno di vedere un gesto ampio perché sia visibile anche dall’ultima fila; ma, se l’intenzione dentro di te è precisa, il gesto può anche essere minimo e sortirà lo stesso effetto. Sarà come un primo piano al cinema. Vorrei recitare sempre senza “far troppo”. Il gesto deve nascere da un’intenzione interiore, da un impulso chiaro e forte. Altrimenti è retorica, e dà fastidio. Non arriva nella sua verità».

 

Con questo spettacolo Anzaldo vince, nel 2010, il prestigioso Premio Ubu come migliore attore under 30. «Non vuol dire che ero il migliore – precisa, con umiltà –. Diciamo che ho avuto la grande opportunità di potermi mostrare in un ruolo che era centrale. E me la sono giocata bene perché sono stato supportato dagli altri colleghi. Non è per togliermi il merito, ma lo spettacolo era frutto di un gran lavoro di squadra. Da soli non si fa nulla. In teatro noi siamo il risultato del lavoro di altre persone. Come in Mar Del Plata».

 

Volto nuovo e in ascesa del teatro e del cinema, Giovanni Anzaldo ha appena debuttato al Piccolo Eliseo di Roma con Mar Del Plata, un testo di Claudio Fava che racconta la storia vera della squadra di rugby La Plata, un gruppo di ragazzi che alla fine degli anni ’70, nell’Argentina della dittatura dei colonnelli, venne decimato dalla ferocia dei militari di Videla.Nello spettacolo, messo in scena da Giuseppe Marini, interpreta Raul Barandiaran, l’unico sopravvissuto a quella tragedia, ancora oggi testimone vivente della squadra che decise di correre contro la violenza e l’oppressione.

 

Conosceva questa tragica pagina della storia dell’Argentina?

«Solo a grandi linee. Ero ignorante e lo sono tuttora. Ancora non mi è del tutto chiaro. Ma lo spettacolo e le testimonianze che ho avuto modo di ascoltare mi hanno aperto gli occhi. E fatto rabbrividire».

 

Ho notato nello spettacolo una sua forte partecipazione emotiva che arrivava fino a qualche lacrima…

«Quello che in particolare mi commuove è il monologo finale del sopravvissuto rivolto al pubblico in cui fa quasi un resoconto delle atrocità che sono state commesse. Se uno pensa veramente alle parole che sta dicendo si rimane storditi. Sto capendo però durante le repliche dello spettacolo, che bisogna tenere il freno a mano sull’emotività, perché già la storia, di per sé evocativa, e, sia le musiche che la scena e le luci contribuiscono a rendere drammatico il racconto. L’ideale sarebbe che non devo essere io a commuovermi ma il pubblico. E questo so che avviene».

 

Come si è preparato nel ruolo, considerando che è una storia con personaggi realmente esistiti?

«Sono partito anzitutto dal libro di Fava, dove spiega molto del mio personaggio. Principalmente mi sono basato sul fatto che ama il rugby, e che è tutta la sua vita. E di conseguenza ciò che circonda lo sport, ovvero i suoi compagni. Col regista abbiamo lavorato sull’emotività, sul fatto che questo ragazzo ha una forte grinta, ma anche una fragilità nel momento in cui scopre di perdere un amico, e poi anche gli altri, come dei tasselli che si tolgono. E chiedersi come può reagire un ragazzo di fronte alla morte di un amico assassinato? Nessuno lo sa. Io mi sforzo ogni volta di capire questo».

 

Al cinema finora ha sempre interpretato personaggi complessi, tenebrosi, borderline. Si riconosce in questi?

«Non sono così disastrato (ride, ndr), ma irrequieto sì. Devo dire però che in tutti questi personaggi ritrovo delle cose in comune che cerco di avvicinare a ciò che un po’ mi riguarda. Penso che tutti gli attori amino interpretare personaggi con battaglie interiori, perché sono quelle in cui ci dibattiamo un po’ tutti».

 

Lei è anche uno scrittore. Ama scrivere storie che si possono leggere sul suo blog. Nascono dall’osservare la realtà intorno, la vita degli altri?

«Osservo la mia di realtà. Si chiamano Storie bastarde e le ho iniziate a scrivere un paio di anni fa. Da queste ne ho fatto uno spettacolo Lo stress del piccione, in cui il protagonista guarda questo uccello che muove la testa sempre avanti e indietro. Facevo un parallelo con una generazione che si muove continuamente ma senza sapere dove andare. Scrivere è la mia valvola di sfogo. Mi sento più a mio agio con la scrittura perché così non mi devo esporre, almeno direttamente».

 

Quindi nel suo futuro potrebbe esserci spazio anche per la drammaturgia?

«Perché no! Credo che sia l’aspetto realmente creativo. L’attore è sempre un esecutore, sia di un testo che di un’idea registica. Ovvio che deve dare parte di sé, ma deve sempre eseguire. Chi scrive, invece, è colui che mette le fondamenta di un qualcosa. Mi piace inventare storie, personaggi, dialoghi, e tutto questo, inevitabilmente, prende una direzione teatrale. Quello che mi interessa sono le contraddizioni che un personaggio si porta dietro».

 

Cosa ci vuole per essere un bravo attore? Talento, fortuna, lavoro?

«Tutte queste cose. Secondo me si diventa bravi attori più lo si fa. Per andare avanti credo che ci voglia moltissima fortuna. Perché vedo talenti straordinari che però rimangono a casa. E ce ne sono tanti che non hanno nulla da invidiare ad altri noti. Vuol dire che quel talento non ha incontrato la buona occasione, quindi non ha avuto fortuna. Poi, recitare bene, e penso che sia una delle cose più difficili, succede quando trovi nell’altro la tua verità, da affidare a lui affinché trovi anche la sua. È uno scambio. Un fatto di reciprocità».

 

Un pregio e un difetto come attore e come persona?

«I due aspetti spesso coincidono. Difetti una marea. Essendo molto emotivo in certe situazioni mi preoccupo molto del pensiero degli altri sulla mia performance e questa cosa mi allontana da quello che dovrei fare, cioè non preoccuparmi di nessuno perché in quel momento la verità è un’altra. Certe volte queste tensioni mi bloccano: mi giudico, mi sento giudicato e divento un dilettante. Un pregio, che forse viene dalla mia timidezza, è che non mi interessa apparire. Credo che non sarò mai un primo attore, perché voglio stare sempre insieme agli altri. Per me è questo il teatro: condivisione e stare insieme».

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