Giovanna D’Arco alla Scala

150 anni non sono pochi. Da tanti mancava la verdiana Giovanna d’Arco dalla Scala dove, dopo la “prima” del 1845, era arrivata, per l’ultima volta, nel 1865
Scala

150 anni non sono pochi. Da tanti mancava la verdiana Giovanna d’Arco dalla Scala dove, dopo la “prima” del 1845, era arrivata, per l’ultima volta, nel 1865. Quattro brevi atti verseggiati da Temistocle Solera attingendo al dramma di Schiller e musicati da un Verdi che la definiva la sua”più bella opera” sino a quel momento.

Eppure, la Giovanna era uscita presto dal repertorio, collocata per di più da uno studioso come Massimo Mila fra le “opere brutte” del Bussetano. Ma  è proprio così?.

Riascoltandola nelle storiche incisioni con protagoniste sopranili  come Montserrat Caballè, Katya Ricciarelli e Mariella Devia, non sembrerebbe davvero. Certo, l’opera non ha cori patriottici ruggenti come Ernani, il lato militaresco dell’eroina non è al centro del dramma, che punta sopra tutto sul rapporto ossessivo padre-figlia e amore-non amore tra Giovanna e re Carlo. Ossia, il Medioevo romanticheggiante  come sfondo alla passione amorosa- Giovanna cede per un momento, ma resta”pura” – al gusto per l’orrido – i cori di angeli e demoni -, e al tratto molto verdiano del conflitto paterno. Dimenticare  perciò la Giovanna della storia reale, che a Verdi non pare interessare più di tanto.

L’ha ben capito Riccardo Chailly, incidendola  dopo averla presentata nel 1989 a Bologna, e ora aprendo con essa la nuova stagione scaligera. Attenzione massima ai dettagli strumentali –che non sono pochi – fin dalla sinfonia iniziale, ricca di echi rossiniani, eppure inquieta e  con un finale travolgente; alle sottigliezze canore di un ruolo che esige un soprano drammatico di agilità non comune, un tenore “eroico”e affettuoso, un baritono caldo e patetico, cioè tre forti protagonisti: Giovanna, Carlo, il padre Giacomo. Insieme e non sullo sfondo il coro che partecipa, commenta, esulta, soffre.

Opera perciò molto impegnativa con pagine belle ed intense (“O fatidica foresta”, del soprano;finale II;finale IV…) a raccontare di Giovanna, inviata celeste al re, tra i sospetti di patti col demonio da parte del padre che poi si ravvede, mentre lei muore in battaglia (non sul rogo).

Dicevamo della direzione di Chailly. L’orchestra è parsa assai ben motivata, incalzante, squisita nelle prime parti dei legni, perfetti gli ottoni dietro al gesto preciso, scattante di un direttore pieno di fuoco e convinto della bellezza della musica del giovane Verdi.

Sulla protagonista Anna Netrebko c’è molto da dire: registro perfetto nelle zone sovracute come nelle gravi,  capacità lirica e drammatica di alternare dolore e visione, forza attoriale, elogiabile in una regia che la sottoponeva a fatiche notevoli per la voce. Una grande interpretazione. Disinvolto il Carlo di Francesco Meli, tenore  di forza, capace di sfumature sentimentali ricercate; pateticamente verdiano e nobile il sempre intonato come voce e recitazione Carlos Alvarez. Straordinariamente  musicale il coro diretto a Bruno Casoni.

La regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier ha puntato sul lato onirico, come se Giovanna a casa avesse una visione delle sue imprese: di volta in volta diavoli assatanati, un Cristo che le dà la croce, la visione del rogo, proiezioni di eventi metastorici e di momenti erotici a sottolineare i diversi stadi emotivi  della donna, in verità non sempre adatti alla musica e allo svolgimento del libretto, obbligando  i cantanti a difficili prove fisico-vocali. Tuttavia, l’allestimento nel complesso funziona e la bellezza musicale – che poi è ciò che sopra tutto conta – rimane intatta, anzi è una scoperta. Per questo motivo, è da vedere almeno l’ultima replica, il 2 gennaio.

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