Giovani speranze in un mondo che cambia

Una valutazione sulla didattica a distanza. Intervista al sociologo Nicola Ferrigni, direttore dell’Osservatorio “Generazione Proteo”
foto archivio proteo

Come valuti la didattica a distanza nel lockdown? Cosa ti fa più paura in questo momento? A quali attività ti stai dedicando? Sono alcune delle domande poste ai 3.000 giovani tra i 16 e i 19 anni intervistati dall’Osservatorio “Generazione Proteo”.

I dati emersi ci consegnano un’immagine positiva dei ragazzi, che si discosta dagli stereotipi e da’ speranza per il futuro. Tra le novità di quest’anno, un questionario anche per gli insegnanti. In questi giorni i giovani studenti stanno partecipando ai “digital talk”, tavoli tematici online, nel corso dei quali hanno la possibilità di confrontarsi con i docenti della Link Campus University, i docenti degli Istituti scolastici secondari di secondo grado e con autorevoli discussant. Abbiamo intervistato il sociologo Nicola Ferrigni, direttore dell’Osservatorio “Generazione Proteo”.

Alla richiesta di valutare la didattica a distanza il 20,3% dei docenti ha risposto che l’ha vista come un’occasione per scoprire l’importanza delle tecnologie a scuola. Che rilevanza ha questo dato?
È un dato importante: un docente su 4 la pensa in questo modo. Non sappiamo quando le scuole riprenderanno la normalità della didattica. La tecnologia a scuola è sempre stata vista come un completamento della didattica.

In questo caso, il docente ha toccato con mano che la tecnologia deve essere al centro dell’innovazione culturale del Paese, che non è il device, ma è proprio una forma mentis, un approccio culturale. Non è lo strumento in se’, perché  la didattica a distanza non è semplicemente fare online quello che si fa in aula: essa va rimodulata. Se in questa fase c’è stata la trasposizione dalla didattica in aula alla didattica a distanza, non sarà più così perché quel 20% dirà che la tecnologia va ripensata, che l’innovazione a scuola sarà un nuovo modo di fare didattica, di ripensare la didattica.

La piattaforma – zoom, skype – è l’aula, non la classe. L’aula e la classe sono due concetti diversi. La piattaforma deve diventare l’aula, ma la didattica innovativa è un’altra cosa. Di fatto si sta riscrivendo un nuovo codice sociale e i giovani sono i protagonisti di questa scrittura, della nuova società del post Coronavirus, che è un nuovo modo di vivere tutto: lavoro, relazioni, scuola. Nulla sarà come prima, perché la didattica va ripensata e non va semplicemente trasferita online.

Dai dati riguardanti i giovani emerge che, nel lockdown, il 17,6% si è dedicato alla famiglia; che la paura più grande è che si ammali un familiare o un amico (37,8% e 15,4%) e solo per il 5,7% è quella di essere contagiato; che ciò che manca della scuola è la dimensione della socialità. Possiamo dire che i giovani non sono così individualisti come si pensa?
Sì. Esce un’immagine di una generazione altruista. L’esperienza del Coronavirus ha fatto riemergere quella che è la natura umana e dei giovani in particolare. Nasciamo come persone solidali, altruiste e purtroppo l’esperienza del vivere plasma e porta a egoismi, a individualismi: è il fattore esterno che fa cambiare il comportamento o l’atteggiamento. In questo caso il fattore esterno ha fatto emergere l’animo candido e puro di un giovane: a 16-17 anni si ha un’indole completamente altruista. La dimensione dell’egoismo, dell’individualismo è una curva che sale con il passare degli anni, spesso le esperienze di vita, le ingiustizie, possono portare a comportamenti più chiusi e individualisti. In questo caso invece viene fuori la grandezza di una generazione che fa ben sperare, perché sarà quella che dovrà essere protagonista della società del post Coronavirus. Se sono questi i principi su cui si sta fondando il post Coronavirus siamo tutti più speranzosi. Il giovane preoccupato per il familiare, per l’amico ancor prima di se stesso è un’immagine meravigliosa, speranzosa.

Tra i giovani intervistati il 52,8% utilizza la televisione per informarsi sulla pandemia; il 35,7% ritiene che i social permettono di sentirsi meno soli. Vuol dire che comprendono bene la distinzione tra il ruolo dei social e quello della televisione?
La televisione ha recuperato il suo ruolo di comunicazione istituzionale, viene percepita come la fonte informativa e il social come la forma cui si fa riferimento per aggiornarsi. Il social è un intrattenimento in una società del benessere, quando tutto va bene certe distrazioni aiutano a spezzare la quotidianità. Ora il social è una forma di intrattenimento per non sentirsi soli. C’è la consapevolezza di due tipologie ben distinte. Alla domanda «a quali attività ti stai dedicando (oltre allo studio)?», è in ultima posizione il videogioco, le chat sui social, invece emerge con forza il dato sulle serie televisive, la lettura, cucinare. Cambia la dimensione del tempo, delle priorità, è un capovolgimento di valori e aspettative del vivere. Il social fa i conti con la vita vera che porta a considerare gli affetti, le relazioni, la famiglia come priorità e il social come una delle appendici del vivere quotidiano.

Finita l’emergenza, rimarranno queste le priorità?
Credo che la società post Coronavirus cambierà il suo DNA. Questo evento ha colto impreparati tutti, non è un evento estemporaneo, di pochi giorni che ha toccato il mondo esterno da noi. Credo che un’esperienza così lasci il segno e segni il percorso di crescita culturale e sociale delle persone e dei ragazzi in primis. Credo che si tornerà a una società diversa, riscritta, usciremo diversi, cambiati, migliorati e – vorrei sottolineare – rallentati. Prima correvamo tanto, ora viviamo di nuovo un tempo a ritmo umano, adesso forse anche troppo, ma ci auguriamo che dopo la fine dell’emergenza, continueremo a mantenere un ritmo più umano di vita, di scansione temporale.

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