Giovani e politica: una domanda di relazione?
![](https://www.cittanuova.it/wp-content/uploads/2016/12/1287407693Marco-Martino-720x0-c-default.jpg)
Nei primi anni di vita universitaria, lanciato in un attivismo sfrenato, non ero in grado di percepire perché, alla maggioranza dei miei colleghi che pure si interessavano a tutti i temi trattati in assemblee o dibattiti pubblici, mancava il desiderio di impegnarsi concretamente, di tradurre cioè un pensiero in azione.
E alla domanda che spesso ponevo: «Perché non cominciamo noi?», mi si rispondeva, quasi sempre, «tanto non cambierà mai niente».
Solo oggi inizio a comprendere quanto profondo e pericoloso sia quel «tanto non cambia niente». Una espressione simile, a ben pensarci, si addice molto di più ad un adulto, il quale, magari, dopo aver speso una vita nell’impegno per qualcosa in cui credeva, dopo aver tentato e ritentato, dopo essersi cimentato in mille azioni concrete per cambiare qualcosa, giunge agli anni della maturità e dice, non con rassegnazione, ma con profonda saggezza, «è difficile cambiare qualcosa…». Tuttavia tra i suoi diciotto e cinquant’anni ha provato, magari fallendo, ma ha provato …
Il punto è proprio questo: quella sua “tensione a cambiare”, ha costruito, nel bene e nel male, la società che abbiamo oggi, con tutti i suoi difetti e pregi. Se dunque noi arriviamo ai nostri diciotto anni ad esclamare: «tanto non cambia niente!» , e non con maturità ma con spenta rassegnazione, cosa costruiremo negli anni che intercorrono tra i diciotto e i cinquanta?
E ancora: se per costruire c’ è bisogno di credere in qualcosa, noi, oggi, in che cosa crediamo?
La domanda "sui giovani e la politica" ha da essere preceduta, penso, proprio da questa domanda. Se infatti per fare politica c’è bisogno di credere in qualcosa è necessario interrogarsi su quali siano le motivazioni o, all’opposto, l’assenza di motivazioni che spingono i giovani all’impegno o al non-impegno. Eludere questa domanda contribuisce, ed ho avuto modo di constatarlo nella mia avventura universitaria, ad alimentare una maggioranza silenziosa di cui nessuno parla: giovani ai quali non interessa che Berlusconi governi o meno, che non guardano alle richieste dei Sindacati o a quelle dell’Europa. Una maggioranza che vive una dolorosa solitudine sociale e culturale, causa di assenza, spesso inconsapevole, di responsabilità. Una solitudine di idee, di proposte, di progetti, di ideali, alimentata da quegli stessi strumenti che vorrebbero combatterla: è così che una chat ed un cellulare, tanto per fare qualche esempio, riempiono spazi vuoti e diventano, da utili mezzi, fulcro del non-pensiero e unico centro d’interesse del quotidiano.
Prendere sul serio questa solitudine implica, per la politica, una riflessione attenta sulle idee-guida, sui sogni, sulle speranze, sulle motivazioni più profonde che vengono lasciate in eredità ai giovani. Non che non sia importante anche riflettere sull’eredità politica in termini di debito pubblico, riforme o infrastrutture: è al contrario fondamentale e, tuttavia, non sufficiente. Evitando la prima riflessione, mi sembra, la politica è destinata a vivere anch’essa una solitudine, una sorta di "ripiegamento all’interno", dove lo sguardo del polites non è più rivolto al suo centro, e cioè "fuori di se", verso la società in generale ed i giovani in particolare, ma è concentrato "dentro di se", esclusivamente -o quasi esclusivamente- verso il potere.
E se questa solitudine fosse, mi chiedo, domanda reciproca di-sperata relazione?
Marco Martino
Dottorando di ricerca, Università La Sapienza, Roma