Giovani e politica: una domanda di relazione?

Marco Martino

Nei primi anni di vita universitaria, lanciato in un attivismo sfrenato, non ero in grado di percepire perché, alla maggioranza dei miei colleghi che pure si interessavano a tutti i temi trattati in assemblee o dibattiti pubblici, mancava il desiderio di impegnarsi concretamente, di tradurre cioè un pensiero in azione.

E alla domanda che spesso ponevo: «Perché non cominciamo noi?», mi si rispondeva, quasi sempre, «tanto non cambierà mai niente».

Solo oggi inizio a comprendere quanto profondo e pericoloso sia quel «tanto non cambia niente». Una espressione simile, a ben pensarci, si addice molto di più ad un adulto, il quale, magari, dopo aver speso una vita nell’impegno per qualcosa in cui credeva, dopo aver tentato e ritentato, dopo essersi cimentato in mille azioni concrete per cambiare qualcosa, giunge agli anni della maturità e dice, non con rassegnazione, ma con profonda saggezza, «è difficile cambiare qualcosa…».  Tuttavia tra i suoi diciotto e  cinquant’anni ha provato, magari fallendo, ma ha provato …

Il punto è proprio questo:  quella sua “tensione a cambiare”, ha costruito, nel bene e nel male, la società che abbiamo oggi, con tutti i suoi difetti e pregi. Se dunque noi arriviamo ai nostri diciotto anni ad esclamare: «tanto non cambia niente!» , e non con maturità ma con spenta rassegnazione, cosa costruiremo negli anni che intercorrono tra i diciotto e i cinquanta?

E ancora:  se per costruire c’ è bisogno di credere in qualcosa, noi, oggi,  in che cosa crediamo?

La domanda "sui giovani e la politica" ha da essere preceduta, penso, proprio da questa domanda. Se infatti per fare politica c’è bisogno di credere in qualcosa è necessario interrogarsi su quali siano le motivazioni o, all’opposto, l’assenza di motivazioni che spingono i giovani all’impegno o al non-impegno. Eludere questa domanda contribuisce, ed ho avuto modo di constatarlo nella mia avventura universitaria, ad alimentare una maggioranza silenziosa di cui nessuno parla: giovani ai quali non interessa che Berlusconi governi o meno, che non guardano alle richieste dei Sindacati o a quelle dell’Europa. Una maggioranza che vive una dolorosa solitudine sociale e culturale, causa di  assenza, spesso inconsapevole, di responsabilità. Una solitudine di idee, di proposte, di progetti, di ideali, alimentata da quegli stessi strumenti che vorrebbero combatterla: è così che una chat ed un cellulare, tanto per fare qualche esempio, riempiono spazi vuoti e diventano, da utili mezzi, fulcro del non-pensiero e unico centro d’interesse del quotidiano.

Prendere sul serio questa solitudine implica, per la politica, una riflessione attenta sulle idee-guida, sui sogni, sulle speranze, sulle motivazioni più profonde che vengono lasciate in eredità ai giovani. Non che non sia importante anche riflettere sull’eredità politica in termini di debito pubblico, riforme o infrastrutture: è al contrario fondamentale e, tuttavia, non sufficiente. Evitando la prima riflessione, mi sembra, la politica è destinata a vivere anch’essa una solitudine, una sorta di "ripiegamento all’interno", dove lo sguardo del polites non è più rivolto al suo centro, e cioè "fuori di se", verso la società in generale ed i giovani in particolare, ma è concentrato "dentro di se", esclusivamente -o quasi esclusivamente- verso il potere.

E se questa solitudine fosse, mi chiedo, domanda reciproca  di-sperata relazione?

 

Marco Martino

Dottorando di ricerca, Università La Sapienza, Roma

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