Giovani e cultura antidoto alla mafia
Il procuratore antimafia Pietro Grasso: basta con l'indifferenza e la rassegnazione. L'illegalità è paura e compromesso. Impariamo a dire no
Al Salone del Libro di Torino l’intervento di Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia, con la partecipazione delle scuole, ha lasciato il segno. Autore di Per non morire di mafia, Sperling & Kupfer editore, Pietro Grasso davanti a una folta platea di studenti ha unito il tema del suo libro a quello del XXIV Salone internazionale del Libro di Torino, cioè “Memoria. Il seme del futuro”.
Il sunto del suo intervento è: la cultura è l’antidoto contro la mafia. Grasso parte dalla sua esperienza personale, dalla sua vita, da quel 1971 quando, giovane sostituto procuratore, venne trasferito a Palermo, dove conosce Falcone, che dopo le confessioni di Buscetta, cambia la strategia della lotta con il via al maxiprocesso, perché la mafia è omertà, ma anche gestione del potere locale e nazionale con il consenso dei cittadini.
«Ricordo che nel settembre 1985,– racconta Grasso – mentre mi trovavo in ferie, il presidente del tribunale mi chiese di andarlo a trovare; l’autista arrivò a prendermi e mi portò da lui. Mi disse che mi proponeva l’incarico di giudice a latere della corte di Assise che andava a giudicare tutte le indagini fatte dal pool antimafia di Falcone, Borsellino, Caponnetto. Questo voleva dire cambiare la mia vita familiare, vivere scortato, con la paura perenne. Lo dissi a mia moglie, ma le dissi anche che se avessimo deciso di rinunciare io avrei cambiato lavoro perché non avrei più avuto il coraggio di incontrare i miei colleghi dopo aver perso un’occasione simile. Mia moglie capì e mi disse: allora va bene, accetta, ci piglieremo quello che arriverà. Come infatti è successo».
Falcone accompagnò Grasso in una stanza con scaffali alti fino al soffitto sulle quattro pareti, stracolmi di faldoni: dieci anni di omicidi, estorsioni, rapine, violenze con 475 imputati, 120 omicidi, 438 capi di imputazione. E iniziarono anche le minacce alla famiglia.
«Durante quegli anni capii quanto era importante per l’organizzazione mafiosa il consenso dei cittadini, – continua Grasso – ottenere favori dalla politica e fare da intermediari tra i bisogni del cittadino e il potere in una sorta di gestione clientelare. La mafia lanciava ordini, il suo vertice imponeva strategie. Fu così che durante il Maxiprocesso i vertici mafiosi imposero di non commettere più omicidi. Forse per convincere i giudici popolari, per rasserenarli. Così che ogni boss quando veniva interrogato su capi di imputazione diceva sempre la stessa frase, che faceva parte della strategia comune: Presidente, io sono estraneo».
Dopo due anni la sentenza fu di 19 ergastoli e più di 2.600 anni di carcere suddivisi tra tutti i mafiosi. La motivazione della sentenza occupò quasi 8 mila pagine, un lavoro enorme proprio sulle spalle di Grasso.
«Gramsci diceva – ha ricordato il procuratore antimafia alla folta platea, attenta e silente – che l’indifferenza e la rassegnazione sono il peso morto della storia. Ed è vero perché la rassegnazione non porta a nulla. Siamo noi a fare la storia, spesso combattendo contro la volontà altrui e le repressioni. La mafia è paura, corruzione, privazione della libertà, oppressione e intimidazione. È violenza, collusione e compromesso. Nessuno può dire di essere libero se accetta di vivere in un contesto mafioso o metaforicamente mafioso. D’altro canto ho trovato e trovo intorno a me tanti giovani meravigliosi che credono e che hanno la speranza che i loro sogni e le loro aspirazioni si possano realizzare, sono coloro che saranno il progresso del mondo».
Il riferimento di Grasso è ai giovani che lavorano nelle terre di Libera, terra confiscata alla mafia; ai giovani di “AddioPizzo” che hanno coinvolto i cittadini in una sorta di consumo critico, cioè a non comprare nei negozi che pagano il pizzo; ai giovani della Fondazione Falcone, che ogni anno organizza le navi della legalità con tanti studenti che si ritrovano sotto l’albero di Falcone, una magnolia che si trova sotto casa sua e che è diventata un punto di riferimento, simbolo di giustizia e libertà.
«Purtroppo non è facile – conclude Grasso – combattere le strategie della mafia che non ha colore politico, ma tenta di aggregarsi a chi detiene il potere in quel momento. Quando mi chiedono quando la mafia finirà, io rispondo con una frase di Falcone: è un fenomeno umano e come tale ha un inizio e una fine. Io ci credo, ma credo anche che allo stato attuale ognuno deve decidere da che parte stare, avere il coraggio di dire no. Viviamo in un mondo in cui anche i primari di ospedale si avvalgono della raccomandazione, dove la politica si infiltra dappertutto. La mafia è forte di questo. I miei modelli sono Falcone e Borsellino. Un giorno Buscetta disse a Falcone: sveliamo i segreti e Cosa Nostra ce la farà pagare, forse anche eliminandoci fisicamente. Lui rispose: noi intanto facciamo il nostro dovere; dopo di me ci saranno altri magistrati che continueranno. E noi siamo qui».