Giovani e dignità del lavoro, l’esempio di don Mario Operti
La figura di don Mario Operti è stata, per la Chiesa italiana e torinese, un riferimento in merito alla possibilità di congiungere l’evangelizzazione e l’impegno sociale e civile. La sua visione incarna i principi del Concilio Vati- cano II e della Dottrina sociale della Chiesa cattolica in modo chiaro e deciso. In questa sua grande attività a favore dei giovani e in particolare dei lavoratori, don Mario, ha sempre attribuito una grande importanza al ruolo dei laici e alla loro irrinunciabile autonomia: «non esistono formule magiche per creare lavoro. Occorre investire nell’intelligenza e nel cuore delle persone».
Mario Operti nasce a Savigliano (CN) il 21 luglio 1950 ed è ordinato presbitero nel 1975 dal cardinale Michele Pellegrino.
Dal 1975 al 1983 è viceparroco a san Donato e comincia ad avvicinarsi in modo deciso ai giovani , in particolare ai lavoratori ed agli studenti, con i quali inizia la sua esperienza nella GiOC (Gioventù Operaia Cristiana). Dal 1983 al 1987 frequenta la Facoltà di Scienze Politiche all’Università di Torino e nel 1994 consegue la laurea. Nel 1989 diventa assistente diocesano della Federazione della GiOC di Torino e nel 1993 diviene assistente nazionale della GiOC italiana.
Nel 1995 viene chiamato a Roma a dirigere l’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Conferenza Episcopale Italiana e in questo ambito avvia un intenso lavoro di collaborazione con le regioni italiane; promuove tavoli per la programmazione dell’evangelizzazione e della pastorale; tra le altre cose, lancia il Progetto Policoro.
Il 20 aprile 2000 viene nominato provicario per la pastorale dall’arcivescovo di Torino, Severino Poletto. E contemporaneamente porta a conclusione le iniziative per il Giubileo, in particolare l’incontro di Giovanni Paolo II con i lavoratori a Tor Vergata.
Il 18 giugno 2001, dopo una breve e dolorosa malattia, muore all’Ospedale Molinette di Torino.
C’è un filo rosso che accompagna le riflessionisulla figura di don Mario Operti ed è sintetizzabile in tre parole Vangelo, giovani e lavoro. Si sa che tenerle insieme è quanto di più difficile la pastorale sia in grado di pensare o fare. L’azione è sempre deficitaria rispetto alle idee. Non è così per don Operti, capace di tradurre in progetti le intuizioni che gli provenivano dalla fede cristiana.
«La dignità di una persona non viene dai soldi – affermava don Operti- ma dalle cose che si sanno e viene dal lavoro. Il lavoro è una unzione di dignità. Chi non lavora non è degno». E ancora: «occuparsi del lavoro è promuovere la dignità della persona. Infatti, il lavoro non nasce dal nulla, ma dall’ingegno e dalla creatività dell’uomo, una imitazione del Dio Creatore». ,
Ecco le quattro parole guida Innanzitutto “animare”, cioè dare un’anima all’economia. «La condivisione, la fraternità, la gratuità e la sostenibilità sono i pilastri su cui fondare un’economia diversa –. È un sogno che richiede audacia, infatti sono gli audaci a cambiare il mondo e renderlo migliore. Non è volontarismo: è fede, perché la vera novità proviene sempre dalle mani di Dio».
Il secondo verbo è “abitare”, che significa amare i territori in cui Dio ci ha posti, evitando la tentazione di fuggire altrove. «Anzi, proprio le periferie possono diventare laboratori di fraternità» sollecitando l’impegno «a chinarsi sulle povertà del nostro tempo: sui giovani che non trovano lavoro, sui cosiddetti Neet, su quelli che soffrono la depressione, su quelli demotivati e stanchi nella vita, su quelli che hanno smesso di sognare un mondo nuovo. Questo è anche il momento di abitare il sociale, il lavoro e la politica senza paura di sporcarsi le mani. Voi potete dare una mano ad aprire le porte e le finestre delle parrocchie, affinché i problemi della gente entrino sempre più nel cuore delle comunità. Senza temere di abitare i conflitti».
La terza parola chiave è il verbo “appassionarsi”. Sulla scia del Vangelo occorre mettere in campo «un “di più” per accompagnare altri giovani a prendere in mano la loro vita, ad appassionarsi al loro futuro, a formarsi competenze adeguate per il lavoro».
Vuol dire che il Progetto Policoro dev’essere sempre più «al servizio dei volti concreti, della vita delle persone, soprattutto dei poveri e degli ultimi della nostra società». E qui va ribadito che «ci si appassiona quando si ha cura della propria interiorità, se non si trascura la spiritualità, se si studia, se si conosce in profondità la dottrina sociale della Chiesa e ci si sforza di tradurla nel concreto delle situazioni».
Infine il quarto e ultimo verbo: accompagnare. «Il Progetto Policoro «è una rete di relazioni umane ed ecclesiali: per accompagnare e farsi compagni di strada verso tutti i giovani che incontra sul suo cammino.
Come noto il Progetto Policoro è organico alla Chiesa italiana, ed è nato con l’obiettivo di dare una risposta concreta al problema della disoccupazione in Italia. Policoro, città in Provincia di Matera, è il luogo dove si svolse il primo incontro il 14 dicembre del 1995 voluto da don Mario Operti.
L’iniziativa divenne progetto concreto dopo il Convegno ecclesiale di Palermo. Obiettivo: far sì che giovani formati dal punto di vista spirituale, economico e culturale si potessero mettere al servizio di altri giovani desiderosi di intraprendere un’attività lavorativa. Non stupisce che le prime diocesi ad aderire al Progetto appartenessero alla Puglia, alla Calabria e alla Basilicata.
In seguito, il gruppo si è allargato anche al Nord Italia: attualmente sono coinvolte circa 130 diocesi, con quasi 180 animatori di comunità, con il supporto di alcune associazioni, dette filiere. In 25 anni di attività, sono nati più di quattrocento “gesti concreti”, ossia imprese, “partite Iva”, cooperative, attività commerciali che rappresentano un segno di speranza, soprattutto nelle aree interne oppure in luoghi segnati da una grave crisi lavorativa.
La realizzazione di molti progetti lavorativi, inoltre, è stata resa possibile grazie allo strumento del microcredito, promosso da diverse diocesi nell’ambito del Progetto.
La ricaduta sul territorio non è solo in termini di “gesti concreti” generati, ma anche d’impegno formativo verso altri giovani: molti animatori di comunità insegnano nelle scuole a scrivere un curriculum, ad affrontare un colloquio di lavoro o ad acquisire competenze per entrare nel mondo del lavoro. «L’esito culturale non va trascurato. Quando un giovane prende in mano la propria vita e ne fa un capolavoro, l’obiettivo è raggiunto».
La missione di don Mario possiamo racchiuderla in una frase: portare la speranza nel sociale. Costruire il dialogo, unire la gente e non dividerla, suscitare e ricevere collaborazione, spendersi senza riserve e quotidianamente per l’evangelizzazione dei lavoratori, curare i contatti personali con incontri, singoli e di gruppo.
Ci ha insegnato a vivere il sociale come luogo dell’incontro e come luogo dove decidiamo della vita nutrendoci di una robusta spiritualità: la nostra fede!
Le donne e gli uomini, con le loro fragilità e le loro ricchezze, sono stati i compagni di viaggio e di lavoro in quella instancabile ricerca di solidarietà e giustizia, unite a una profonda fede, che hanno caratterizzato l’esperienza terrena di questa straordinaria figura contemporanea.
Grande animatore sociale e grande organizzatore, ha partecipato in prima persona alle fasi di preparazione di una realtà che, alla luce di una profonda fede in Dio e negli uomini, potesse raccogliere le sfide della società contemporanea in merito a temi quali il lavoro, la casa, l’educazione dei giovani e anche un certo modo di intendere il credito e la finanza.
Per dirlo con le parole di Don Mario: «Una chiara comprensione della missione evangelizzatrice della Chiesa e al contempo al riconoscimento della specifica presenza e autonomia dei laici nel mondo … collaboratori dell’opera della Chiesa, ma anche chiamati ad orientare a Dio le realtà terrene nella piena autonomia delle loro scelte e della loro responsabilità».
Quali sono le sfide della Pastorale sociale e del lavoro?
Le dinamiche nell’evangelizzazione di Cristo che devono essere le dinamiche del nostro impegno missionario. Se ne possono individuare quattro:
a) l’inculturazione dell’annuncio
Annunciare il Vangelo non vuol dire ripetere una lezione che abbiamo imparato a memoria, ma significa dire la Parola di Gesù in modo significativo nei vari contesti e nei vari ambienti di vita. Non si tratta di ripetere delle parole ma di dirle in modo significativo per le persone che ci ascoltano.
b) Il dialogo
Il cristiano vive male la mentalità dell’assedio o della conquista; ha piuttosto la coscienza di dover essere sale e luce… ed entra così in dialogo con la realtà, convinto che Cristo ci precede sulle strade del mondo. Non siamo noi che portiamo Cristo, ma siamo chiamati piuttosto a riconoscerlo e ad annunciarlo.
c) La testimonianza
Siamo chiamati a «far vedere» con la nostra vita che il Vangelo cambia l’esistenza, che il Vangelo è veramente la buona notizia che crea speranza, che dà possibilità, che dà futuro agli uomini.
d) La liberazione o promozione umana
Pensate alla storia dell’Esodo: l’evangelizzazione è sempre opera di liberazione nostra e dei nostri fratelli, perché siamo convinti che questa Parola, nella misura in cui è annunciata in modo autentico, significativo per chi l’ascolta, è Parola che libera e crea novità di vita per le persone e le situazioni.