Giotto Il mondo nuovo

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C’è tanta dolcezza, nella cappella di Giotto. Una serenità, di spazi, proporzioni e colore. Quasi che il mondo vero sia qui, e fuori esista soltanto il mondo dell’apparenza. C’è una luce, che non è solo quella naturale, del mezzogiorno, che filtra dalla trifora centrale e riscalda le storie evangeliche sulle pareti e la volta. È, questa luce, una particolare visione delle cose e della realtà, a render vera, attuale la “rappresentazione” di Giotto. Il genio toscano è infatti l’aurora del Rinascimento, il presagio del valore dell’uomo, della sua dignità. E, di conseguenza, ecco il parlare largo, solenne, del suo racconto. Figure costruite plasticamente dal colore, come blocchi di vita. Architetture, gotiche o classiche, di interni o di paesi, aderenti alla realtà: la natura come proiezione del sentimento. Nascono brani indimenticabili: il monte “che sale”, a prolungare visivamente il dolore di Maria nel Compianto; i cespugli fioriti lungo il passo del Cristo risorto. Giotto contempla il raggio delle emozioni umane, non ne sottintende nessuna. Le lacrime blu delle madri, nella Strage degli Innocenti; lo strazio degli angeli, rondini impazzite, nella Crocifissione; il bacio appassiona- to di Gioacchino e Anna alla Porta Aurea “segno dell’indissolubilità del matrimonio ” (Sgarbi). Tutto Giotto guarda e descrive, con la libertà tranquilla della fede: perché per il pittore è Dio a guidare la storia. Il racconto si snoda infatti dall’arco trionfale, con la scena-madre dell’Annunciazione – regale nel gesto e nelle pose – lungo le pareti, per concludersi nel Giudizio della controfacciata: una scenografia di maestà tremenda, come il mondo medievale s’immaginava e come il contemporaneo Dante “scolpiva” nella Commedia. Il Cristo della parusia è il Pantocratore bizantino certo, ma con quanta umanità; le schiere dei beati, con Enrico Scrovegni davanti a Maria, sono salvate, ma con quale fiduciosa trepidazione. El’inferno, nel chiaroscurare dei grigi e dei neri, vede un Giotto narrare, con ferocia popolaresca, il film delle sevizie e degli orrori, non indietreggiando dinnanzi a nessun supplizio. Tutto il toscano tratta, con assoluta libertà di spirito. E con amore alla vita. È questo amore ad animare il ciclo. Sotto l’azzurro di un cielo stellato, fisico e immobile, che sostituisce l’oro metafisico dei fondi bizantini, si muove la vicenda umana nelle sue sequenze tristi, agitate o gioiose. Cortei nuziali con musicisti e cantori, greggi su colline alpestri, interni domestici, i lavori degli umili e gli atti trionfali del Cristo. Giotto accentua la dilatazione delle forme, scolpisce in monocromo i simboli dei Vizi e delle Virtù – la cappella è pur sempre una “biblia pauperum”, anche se privata – porta ogni scena ad una dimensione monumentale, di eternità. Apre a invenzioni indimenticabili. Il colore crea fruscii di sete e broccati, già prima di Raffaello; dipinge il sonno e l’inconscio, nelle guardie della Resurrezione, prima di Piero; illumina posate e stoviglie nelle Nozze, prima di Leonardo. Inventa notturni di fiaccole, nella Cattura, prima di Caravaggio; blocca i corpi nella solidità geometrica, nel Sogno, quasi un Picasso del Trecento. Lascia così al secolo che si sta aprendo – quello che vedrà la schiera dei Guariento, Altichiero e Tommaso – di proseguire la sua indagine sull’uomo, sui moti del suo animo. C’è infatti in tutta la cappella una pressoché infinita variazione di sguardi, sorrisi, parole non dette e parole gridate in coro, che i secoli a venire svilupperanno. Giotto, maestro dell’epica cristiana, creatore disilenzi e di stupori che da tempo non si udivano in arte, chiude ed apre un momento della civiltà, come Dante. Con la sua formidabile capacità di sintesi, lascia a noi che timidamente ci avviciniamo al suo mondo, un senso di sbalordimento. Come fossimo davanti a qualcosa di troppo sicuro, pacificante e sereno, cui nonsiamo più abituati. Eppure è proprio ciò che affascina della poesia “umile e alta” di Giotto. Del suo teatro pittorico, che consacra con la luce ed il colore, lo spazio della storia dell’uomo. Lo invita alla quiete interiore, per scorgere il filo conduttore della storia, che si sta svolgendo sotto i suoi occhi. Il riscatto di Enrico Cappella privata di Enrico Scrovegni, atto di riparazione per l’usura del padre, la chiesa dell’Arena è un unico ambiente con volta a botte, decorata da Giotto e allievi fra il 1303 e il 1305. 900 mq di pittura, con 103 riquadri in tre fasce, è un compendio di storia (le vicende di Gesù e Maria), di agiografia (i fatti di Anna e Giacchino), di morale (le allegorie dei vizi e delle virtù) cristiana. Nel presbiterio, la tomba del fondatore e il gruppo della Madonna col Bambino di Giovanni Pisano; la cappella conteneva pure un Crocifisso di Giotto , ora nel vicino museo degli Eremitani. L’opera, dipinta dopo i lavori nella basilica e nel convento di sant’Antonio (oggetto di un futuro restauro), segna la maturità del pittore, giunto nella città grazie ai suoi costanti contatti con i francescani; essa è il monumento più insigne della civiltà figurativa padovana del Trecento. Il restauro, di soli otto mesi, ma con alle spalle decenni di studi e di interventi, ha evidenziato la grandezza di Giotto colorista, pur non recuperando parti del tutto perdute (nella controfacciata e nell’arco trionfale). Sono riemersi l’azzurro del trenta per cento delle scene, i basamenti in finto marmorino, la sapienza prospettica dei coretti dipinti. Inaugurata lo scorso 18 marzo dal presidente Ciampi con oltre 200 giornalisti internazionali, la cappella è visitabile ogni giorno per quindici minuti, su prenotazione. 049-2010020. www.cappelladegliscrovegni.it

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