I giorni delle bombe. A 50 anni da piazza Fontana
«Erano le 16.30 circa […]. Nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano si stavano svolgendo per antica consuetudine le contrattazioni dei fittavoli, dei coltivatori diretti e dei vari imprenditori agricoli […] allorché improvvisamente vi echeggiava il fragore dell’esplosione di un ordigno di elevata potenza. Ai primi accorsi da Piazza Fontana, che dà accesso al salone, l’interno della Banca offriva subito dopo un raccapricciante spettacolo: sul pavimento del salone, che recava al centro un ampio squarcio, giacevano, fra calcinacci e resti di suppellettili, vari corpi senza vita ed orrendamente mutilati, mentre persone sanguinanti urlavano il loro terrore».
Così si aprono le motivazioni della sentenza della Corte di Assise di Catanzaro del 23 febbraio 1979, che concluse il primo processo sulla strage di Piazza Fontana. Una cronaca fredda che rende, tuttavia, l’orrore di 50 anni fa, di quel terribile venerdì 12 dicembre 1969, in cui, è stato detto, l’Italia del boom economico perse l’innocenza e si inoltrò nella stagione degli anni di piombo; in cui morirono 17 persone, ne furono ferite 88. Il più grave attentato in Italia dal secondo dopoguerra al 2 agosto 1980, giorno della strage alla stazione ferroviaria di Bologna.
Ci furono giorni in cui, nell’Italia in pace e repubblicana, persone innocenti morivano sotto le bombe; giorni di un tempo non troppo lontano, di cui ricorre, quest’anno, il cinquantesimo anniversario; giorni che, se la generazione di chi è nato fino ai primi anni ’60 ricorda vividamente, rischiano di essere quasi sconosciuti dai cosiddetti millennials.
Una sorta di meccanismo di rimozione collettivo sembra avvolgere, infatti, quei giorni non così distanti, che aspettano ancora di trovare giustizia e che, tuttavia, difficilmente saranno soddisfatti se le nuove generazioni non avranno il coraggio, la responsabilità e la tenacia di affrontarli.
Ci si sente annegare approfondendo quello che è successo a Piazza Fontana. Si ha la sensazione di sprofondare in un mare di silenzi, di ambiguità, di ricostruzioni parziali e magari politicizzate, in cui manca sempre qualche pezzo, in cui il ragionamento non si completa mai del tutto, in cui il mosaico ha sempre qualche tassello mancante.
Dalla prima pista di indagine, quella anarchica, indirizzata dall’Ufficio Affari Riservati, all’ultima, quella neo-nazifascista legata al gruppo Ordine Nuovo, di cui sono stati più volte e in modo convincente richiamati, ma mai del tutto dimostrati, legami con membri dei servizi segreti del SID, si staglia una ricostruzione di cui non si ritrova mai la parola conclusiva.
La vicenda è affollata di personaggi ambigui che passano da movimenti eversivi di opposte fazioni che, a bene vedere, sono accomunate da quella ideologica volontà di potenza con cui ritengono di poter indirizzare il destino comune attraverso o il mito dell’azionismo avanguardista o la visione ideologica della storia come materialismo dialettico di cui è possibile, con presunzione scientifica, prevedere gli sviluppi e quindi indirizzare gli eventi.
Si parte da Mario Merlino, insegnante appartenente prima ad Avanguardia Nazionale poi al Circolo anarchico 22 marzo, dapprima indagato per la strage poi assolto. Compare poi Franco Freda, già condannato come colpevole nel primo processo del 1979, in seguito assolto per assenza di prove, ed infine riconosciuto, dall’ultima sentenza della Cassazione del 2005, “capitano”, insieme a Giovanni Ventura, di Ordine nuovo, l’organizzazione condannata, dalla sentenza stessa, per strage, che si è definito nazi-maoista, difensore di qualcosa che non esiste, la “razza” bianca, e che invoca per l’avvenire apocalittici scontri di civiltà. Ma nella ricostruzione complessiva emerge la vicenda di Vittorio Ambrosini, militare e giornalista, la cui storia personale parla di appartenenze, tra gli anni’20 e ’50, all’arditismo rosso, al neonato partito comunista italiano e poi al partito fascista (che nel ’26 lo esiliò al confino), al Movimento Sociale Italiano con cui si candidò come deputato della repubblica. Ambrosini morì, nell’ottobre 1971, in circostante mai chiarite, volando giù da un settimo piano dopo aver rivelato al ministro dell’interno di allora, Restivo, e al deputato comunista Stuani, di essere venuto a conoscenza, nel 1969, della volontà stragista di Ordine Nuovo (sebbene, interrogato poi dai giudici, avesse ritrattato). Esiste poi il fatto eclatante dell’anarchico Giuseppe Pinelli che quattro giorni dopo la strage volò dalle finestre della questura milanese dov’era illegalmente trattenuto.
In questo mare reso agitato dalle reticenze, alle basse rivendicazioni politicizzate, continuano ad annegare vittime innocenti che non sono solo i 17 morti e gli 88 feriti di quel terribile venerdì sera, ma sono anche le loro famiglie e i loro amici. Restano colpiti da tale viltà e fumosità tutti quegli italiani che ogni giorno lavorano per contribuire al bene della famiglia, del quartiere, della città, dello stato, di quel lembo di umanità accanto a cui vivono.
Ma oltreché dai silenzi di chi sapeva, dalle orchestrazioni di palazzo, più o meno chiarite, che hanno fatto parlare di strategia della tensione, dai crimini di chi ha ucciso innocenti, quella stagione è segnata anche da uomini di stato che hanno lottato per capire cosa successe, che hanno portato avanti indagini per ristabilire la giustizia, che hanno dato la vita per dire al Paese, con il loro esempio, che si può pretendere la verità di quegli anni convulsi, senza cedere ai sensazionalismi e alle ricostruzioni di parte.
Come ricordò l’allora arcivescovo di Milano, cardinale Giovanni Colombo, durante l’omelia dei funerali (partecipati da una oceanica folla commossa), ci furono persone che, anche in un momento così difficile, non si arresero ai diktat della paura e della lotta, alla logica del terrorismo e che impegnarono le loro energie migliori per costruire un futuro promettente per loro e per tutti.
È anche per queste persone, come per le vittime innocenti, che occorre raccontare, a chi non conosce, cosa accadde in Piazza Fontana. Non solo perché non sono ancora finiti i giorni in cui esplodono bombe contro gli innocenti, ma anche perché una democrazia e un Paese civile, nel XXI secolo, non possono fare a meno della verità e della giustizia.