Giorni della memoria
L’incidente al porto di Genova conta, al momento, sette vittime. Una di loro è il papà di Federico, intervistato da un giornalista subito dopo aver appreso questa tragica notizia. Non sapeva di averlo perso, gli avevano accennato che la situazione era grave e che doveva recarsi subito in ospedale. La sua voce è calma: ricorda il suo papà con i verbi al presente e usa parole piene di tenerezza, di stima, di profonda ammirazione per ciò che ha imparato da lui: «È una persona che sa cavarsela in ogni situazione» sussurra con commozione.
A fine aprile, il 28, mentre a Palazzo Chigi il nuovo Governo sta giurando, i colpi di pistola in strada raggiungono tre persone, due in modo grave. Uno di loro è il papà di Martina, 22 anni, che ha perso la sua mamma tre mesi fa. Il giorno seguente è pronta a rilasciare una dichiarazione alla stampa: legge lentamente, commuovendosi con enorme dignità. Afferma tre volte di essere fiera di suo padre e che è pronta a vivere ciò che la situazione comporta: ha intenzione di licenziarsi per potergli restare accanto il più possibile.
Federico e Martina non immaginavano, forse, che la loro vita privata sarebbe diventata pubblica in modo drammaticamente rapido, violento, inaspettato. Hanno salutato i loro padri come ogni giorno, sentendoli al telefono e sapendoli al lavoro. Non sono diversi, forse, dai figli che hanno perso il loro papà nelle stragi terroristiche. Potrebbero chiamarsi Agnese (Moro), Mario (Calabresi), Benedetta (Tobagi), insieme ai loro fratelli e sorelle, solo per restare alle vittime di cui ricorre l’anniversario nei prossimi giorni: 9 maggio 1978 per Aldo Moro, 17 maggio 1972 per Luigi Calabresi, 28 maggio 1980 per Walter Tobagi. Omicidi, non incidenti. Esecuzioni ragionate, organizzate, stabilite nei dettagli, di cui, purtroppo, ancora si conosce poco.
Restituire luce alle ombre del passato è doveroso, necessario, indispensabile. Come ricordare, cioè non dimenticare. Lasciare che i volti parlino, insieme alla vita e alla morte di queste persone. Ecco perché si potrebbe parlare di giorni della memoria, accanto al giorno, che si celebra il 9 maggio ed è dedicato, dal 2008, «alle vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi di tale matrice».
I figli, questi figli, possono aiutare ad allenare la memoria. A non disperdere la storia nell’oblio, come pioggia che cade sui fogli di carta. Costruiscono ponti tra le generazioni e portano il peso di silenzi scomodi, confusi e colpevoli sui volti, così simili a quelli dei loro padri. Come il cuore, forse, la mente e l’anima. «Non li hanno uccisi» – si scrisse sui lenzuoli appesi fuori da tanti balconi di Palermo a pochi giorni dalle stragi che portarono alla morte dei giudici Giovanni Falcone (il 23 maggio 1992) e Paolo Borsellino (19 luglio 1992) – «le loro idee camminano sulle nostre gambe». E hanno fatto tanta strada. Ma la più importante, forse, è quella che resta da percorrere: verso la verità e la giustizia, per chi ha dato la vita e per chi l’ha persa essendo figlio, moglie, genitore delle vittime, spesso soffocato dalle lacrime e dalla nostalgia. Non si può dimenticare. Non si deve.
A fine aprile, il 28, mentre a Palazzo Chigi il nuovo Governo sta giurando, i colpi di pistola in strada raggiungono tre persone, due in modo grave. Uno di loro è il papà di Martina, 22 anni, che ha perso la sua mamma tre mesi fa. Il giorno seguente è pronta a rilasciare una dichiarazione alla stampa: legge lentamente, commuovendosi con enorme dignità. Afferma tre volte di essere fiera di suo padre e che è pronta a vivere ciò che la situazione comporta: ha intenzione di licenziarsi per potergli restare accanto il più possibile.
Federico e Martina non immaginavano, forse, che la loro vita privata sarebbe diventata pubblica in modo drammaticamente rapido, violento, inaspettato. Hanno salutato i loro padri come ogni giorno, sentendoli al telefono e sapendoli al lavoro. Non sono diversi, forse, dai figli che hanno perso il loro papà nelle stragi terroristiche. Potrebbero chiamarsi Agnese (Moro), Mario (Calabresi), Benedetta (Tobagi), insieme ai loro fratelli e sorelle, solo per restare alle vittime di cui ricorre l’anniversario nei prossimi giorni: 9 maggio 1978 per Aldo Moro, 17 maggio 1972 per Luigi Calabresi, 28 maggio 1980 per Walter Tobagi. Omicidi, non incidenti. Esecuzioni ragionate, organizzate, stabilite nei dettagli, di cui, purtroppo, ancora si conosce poco.
Restituire luce alle ombre del passato è doveroso, necessario, indispensabile. Come ricordare, cioè non dimenticare. Lasciare che i volti parlino, insieme alla vita e alla morte di queste persone. Ecco perché si potrebbe parlare di giorni della memoria, accanto al giorno, che si celebra il 9 maggio ed è dedicato, dal 2008, «alle vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi di tale matrice».
I figli, questi figli, possono aiutare ad allenare la memoria. A non disperdere la storia nell’oblio, come pioggia che cade sui fogli di carta. Costruiscono ponti tra le generazioni e portano il peso di silenzi scomodi, confusi e colpevoli sui volti, così simili a quelli dei loro padri. Come il cuore, forse, la mente e l’anima. «Non li hanno uccisi» – si scrisse sui lenzuoli appesi fuori da tanti balconi di Palermo a pochi giorni dalle stragi che portarono alla morte dei giudici Giovanni Falcone (il 23 maggio 1992) e Paolo Borsellino (19 luglio 1992) – «le loro idee camminano sulle nostre gambe». E hanno fatto tanta strada. Ma la più importante, forse, è quella che resta da percorrere: verso la verità e la giustizia, per chi ha dato la vita e per chi l’ha persa essendo figlio, moglie, genitore delle vittime, spesso soffocato dalle lacrime e dalla nostalgia. Non si può dimenticare. Non si deve.