Giornate cruciali per la pace in Colombia
Vive giornate cruciali, la Colombia, dopo che il processo di pace è entrato in quella che potrebbe definirsi, nel bene come nel male, la fase definitiva. Il presidente Juan Manuel Santos ha posto un ultimatum alla guerriglia delle Farc: in quattro mesi si deve arrivare al cessate il fuoco definitivo che conduca alla firma della pace. C’è tempo, dunque, per definire i temi in agenda nelle trattative che si svolgeranno a Cuba, fino a novembre, quando i negoziati in corso compiranno due anni. Dopodiché o sarà pace o sarà la guerra. Santos, assicura che il suo governo è preparato per entrambe le situazioni.
Ma come si è giunti a questo stato di cose? L’iniziativa del presidente Santos risponde alla tregua unilaterale di un mese dichiarata dalla guerriglia, dopo la sospensione del cessate il fuoco proclamato a dicembre, ma che tra maggio e giugno è stato violato ripetutamente. Anzi, gli ultimi sessanta giorni sono stati un susseguirsi di attacchi reciproci con varie decine di morti da una parte e dall’altra. Va detto, comunque, che il governo colombiano non ha mai dichiarato una tregua asserendo che è suo compito proteggere la popolazione minacciata. C’era comunque stato un tacito freno alle operazioni militari, sopratutto ai bombardamenti aerei degli accampamenti della guerriglia, improvvisamente interrotto a maggio dall’attacco a un distaccamento di soldati uccisi durante il sonno, mentre avevano trovato alloggio presso un liceo, durante operazioni di pattuglia. A partire da quel momento, gli scontri armati sono ripresi e in vari casi le Farc hanno realizzato attentati contro oleodotti, con gravi conseguenze per l’ambiente inquinato dal migliaia di barili di greggio versati nei corsi d’acqua. Un gesto che ha irritato ulteriormente l’opinione pubblica nei confronti di una guerriglia che ha perso da tempo ogni appoggio popolare.
La tensione è cresciuta fino a che il governo ha avvertito che “la pazienza dei colombiani è arrivata al limite” e non è detto che i negoziati proseguano in modo indefinito. “In futuro protemmo ritrovarci ma non più seduti allo stesso tavolo” ha avvertito Humberto de la Calle, capo della delegazione del governo colombiano. Le Farc hanno risposto con una nuova tregua unilaterale ma, inflessibile, Santos – la cui popolarità è scesa a livelli minimi – ha dato un ultimatum: in quattro mesi bisogna mettere la parola fine allo scontro armato.
In agenda restano da stabilire due punti, sui cinque iniziali: quello della riparazione alle vittime della violenza e quello della giustizia. Con molto realismo, Santos ha sottolineato che ci sono due elementi che si oppongono all’eventuale aministia per i crimini di guerra che le Farc caldeggiano: uno è lo scontento che genererebbe una misura del genere nell’opinione pubblica. Sono centinaia gli assassini comessi dalla guerriglia in questi anni contro coloro che si sono opposti al loro dominio territoriale, molte delle vittime erano civili. L’impunità non è una opzione per Santos. D’altro canto, i trattati internazionali firmati dalla Colombia renderebbero nulla una misura del genere, con l’intervento automatico del sistema internazionale di protezione dei diritti umani. “Deve essere applicata una qualche forma di giustizia transizionale”, sostiene il presidente della Colombia, convinto che su questo punto non ci possono essere equivoci: non ci sarà impunità.
Le Farc, da parte loro, temono che una volta deposte le armi, possano essere vittime di rappresaglie nei loro confronti. Ma anche qui, Santos ha tracciato una linea invalicabile: l’esercito vigilerà sulla loro sicurezza: prendere o lasciare. Perché senza un minimo di fiducia nello Stato non sarà possibile costruire una futura pace.
Sebbene la grande maggioranza dei colombiani ritenga necessario risolvere pacificamente il conflitto, il 68 per cento della popolazione teme che non si possa raggiungere tale risultato. L’opposizione che combatte il modo con cui Santos ha condotto le trattative, ha indetto una prossima marcia di protesta. Santos sa che ha preso decisioni che comportano un elevato costo politico: come quella di credere, a suo tempo, nella volontà di pace delle Farc o quella di condurre le trattative senza una tregua bilaterale. Ma erano anche i margini di manovra che offrivano una opportunità per cercare di chiudere questo amaro capitolo della storia del Paese.
In questi giorni Santos ha chiesto la presenza nei negoziati di un delegato dell’Onu e di uno dell’Unione delle Nazioni dell’America del Sud (Unasur). Quest’ultimo organismo ha designato un ex ministro uruguyano, José Bayardi, che a suo tempo prese parte ai negoziati che condussero alla fine della dittatura in Uruguay. Gesti, questi ultimi, destinati a fornire assicurazioni ai guerriglieri che tutti i passi avverranno alla presenza di testimoni, facilitatori e con garanzie.
Tutto sembra indicare che siamo alla vigilia di passi definitivi. Pare che esiste più ottimismo fuori del Paese che che al suo interno. Non è solo pessimismo. Molti hanno conosciuto da vicino gli orrori di questa guerra e i timori sono comprensibili. C’è solo da sperare che tanto dolore patito parli ai cuori di coloro che dovranno prendere le decisioni più cruciali.