Giornata del malato, camminare accanto a chi soffre
Suor M. Chiara Pilota fa parte dell’Istituto delle Piccole Suore Missionarie della Carità di San Luigi Orione. In 37 anni di consacrazione religiosa il suo impegno è stato accanto ai carcerati dell’Ucciardone, ai tossicodipendenti, ai poveri dell’Ostello della stazione Termini, ai ragazzi malati terminali di aids; nella scuola, fra i bambini e neonati in attesa di essere adottati, tra i Piccoli Cottolengo. Ora vive a Tortona, insieme ad una comunità di Sorelle ricche di anni, segnate fortemente dall’esperienza del Covid 19. L’abbiamo intervistata in occasione della XXX Giornata Mondiale del Malato.
Nel Messaggio per la Giornata il papa scrive che, quando una persona sperimenta la sofferenza a causa della malattia, si moltiplicano gli interrogativi e la domanda di senso. Come rispondere a tali interrogativi?
Nella mia esperienza accanto a persone segnate da situazioni di dolore mi ha sempre aiutata una frase che don Orione amava ripetere: «Piegatevi con caritatevole dolcezza alla comprensione dei piccoli e dei poveri», dove piccolo e povero è ciascuno di noi nel momento in cui sperimenta la sofferenza, la solitudine, il peso della malattia. Prima ancora di «fare» è importante «stare», piegarsi alla comprensione di quel dolore personale e unico; porsi accanto e comprendere, prendere con sé, accogliere l’altro nel proprio mondo e fargli spazio con tenerezza, come mio fratello che sta soffrendo. Entrare in punta di piedi, parlare silenziosamente e farsi compagno del cammino con l’umiltà di chi non ha tutte le risposte pronte, ma vuole ricercarle insieme e trovare un senso a ciò che sembra non averlo.
Dio non ci salva dalle malattie, dalla sofferenza, ma nelle malattie e nella sofferenza donandoci quella luce che ci fa entrare nella realtà con uno sguardo di fede e di abbandono nelle mani del Padre, autore di ogni vita. Il dolore ha un grande valore pedagogico e apostolico per chi lo vive e per chi lo cura, per chi si fa prossimo. Dopo il «comprendere» bisogna prendersi cura dell’altro attivando tutte le risorse umane, spirituali e professionali per aiutare ad accogliere la sofferenza e a «guarire».
«Il malato è sempre più importante della sua malattia, e per questo ogni approccio terapeutico non può prescindere dall’ascolto del paziente, della sua storia, delle sue ansie, delle sue paure», si legge nel Messaggio. L’ascolto può essere veramente una «cura per l’anima»?
Vivendo alcuni anni al Piccolo Cottolengo di Tortona accanto a bambini segnati dal «limite», dalla pluridisabilità, dalla malattia rara, avvolti dal mistero della sofferenza ho potuto sperimentare la grazia di accogliere la vita in tutta la sua grandezza, bellezza e dignità. Quel «chinarsi con caritatevole dolcezza» sul mistero della fragilità di ogni bambino, si è rivelato come uno «stare» in continua «compagnia» con Dio, come diceva don Orione, imparare ad amare qui e adesso.
Il dolore in questa prospettiva non è più estraneo, non riguarda più solo l’altro, ma mi appartiene e chiede risposte di accoglienza, di attenzione, di umanità, di tenerezza. L’ascolto è veramente la prima «cura dell’anima» e che non si fa solo con le orecchie, ma con tutti i sensi fino ad arrivare a «toccare l’altro» perché ti sei lasciato «toccare» da lui. Di fronte al dolore, insieme alle mie consorelle abbiamo offerto l’ospitalità del cuore, della nostra casa, in uno stile di famiglia dove ci si è sentite tutte coinvolte e protese ad alleviare la sofferenza, ad offrire conforto sempre con la porta aperta alla Speranza e alla preghiera intensa e insistente al Signore della Vita! Quante volte ho sperimentato la forza della vita che è più forte della morte!
«Anche quando non è possibile guarire — scrive il papa — sempre è possibile far sentire una vicinanza che mostra interesse alla persona». In che modo si può stare accanto a una persona malata che è alla fine della sua vita?
Ho vissuto in maniera molto forte questa esperienza soprattutto con alcuni giovani malati terminali affetti da HIV e alcuni malati oncologici. Accompagnare, ascoltare, sostenere, confortare, accarezzare, condividere, sorridere, assecondare, stare accanto semplicemente… sono per me i verbi più importanti in un percorso aperto ad una Vita che inizia con la nascita e che non finisce più.
I ragazzi negli ultimi giorni della loro vita mi dicevano che si sentivano come «in una incubatrice» con tutto il calore e le attenzioni che mai avevano ricevuto nella loro vita di strada. Pur non credendo in Dio si sono aperti a Qualcuno di cui non sapevano il Nome, ma che sicuramente sentivano più grande di loro e nelle cui mani era la loro vita. Nessuno di loro, grazie all’amore sincero, alla relazione che si era creata, è morto con la disperazione nel cuore, ma serenamente.
Toccare con mano la sofferenza degli altri può aiutare a comprendere e apprezzare il valore della vita?
Sicuramente per alcuni. Spesso viviamo la malattia come qualcosa che non ci appartiene, che ci fa paura, finché non avviene l’incontro personale con la sofferenza e, direi, l’impotenza; in questo incontro a partire dalla debolezza e dalla vulnerabilità si scopre la vita come una provocazione all’accoglienza sempre, in qualsiasi situazione, come un valore assoluto, degna sempre di essere vissuta, accolta, protetta, custodita. Nella mia esperienza al Piccolo Cottolengo, soprattutto con i giovani, anche se l’impatto iniziale non è stato facile, successivamente si è dimostrata una vera «terapia d’urto» per chi faceva abuso di droghe, per chi faceva «il bullo» o per chi si lasciava vivere semplicemente narcotizzato.
La vita «debole» dei nostri bimbi, segnata dalla malattia, dal limite, dalla non autosufficienza né alimentare, né respiratoria, né psicomotoria è stata così «forte» da risvegliare nel cuore di tanti giovani il desiderio di accogliere il mistero legato ad ogni vita e al suo valore infinito. Ogni minuto è da vivere!