Giornalisti più vicini
Un fenomeno inatteso sta contagiando, come un virus, cioè in modo difficilmente controllabile, le nostre società. Il giornalismo, che un tempo era considerato il mestiere per eccellenza per capire «dove sta la verità», oggi è sottoposto a una crisi di sfiducia di non poco conto. Accade infatti che, per diversi motivi a seconda dei Paesi e dei continenti ma comunque inseriti nel contesto delle innovazioni digitali di questi decenni, il giornalista non sia più considerato automaticamente credibile e lo si accusi addirittura di “connivenza” con un qualche potere.
Il caso dei gilet jaune francesi è tra i più evidenti: i cittadini scesi in piazza se la sono presa, a volte anche violentemente, con politici e giornalisti, assimilati nella stessa accusa di non saper leggere correttamente o addirittura di manipolare la realtà. Altro segnale in questa direzione sono le manifestazioni nelle piazze di mezzo mondo di quest’anno, in particolare del mondo arabo, in cui i contestatari non hanno più attribuito alla stampa un ruolo super partes, accusandola spesso di confondere le acque se non di essere asservita al potere politico.
Di tutto ciò e di molto altro ancora si è discusso in Francia, a Lourdes, nell’annuale incontro promosso dalla Federazione della stampa cattolica francese (una delle associazioni di giornalisti e comunicatori cattolici più vivace al mondo e più efficace nelle sue espressioni) guidata da Jean-Marie Montel e il Dipartimento per la comunicazione del Vaticano, guidata invece da Paolo Ruffini. Si tratta delle “Giornate di san Francesco di Sales”, che come si sa è il protettore dei giornalisti. In questa XXIV edizione il tema scelto riguardava la prossimità: quella del giornalista col suo pubblico, ovviamente, ma anche quella con il proprietario dei mezzi di comunicazione; quella nella globalizzazione e quella nella localizzazione; la prossimità con la propria coscienza e quella con la capacità o meno dei fruitori di ricevere la giusta informazione e la giusta comunicazione. Erano presenti e hanno parlato giornalisti ed esperti di informazione e comunicazione non solo francesi, ma di una trentina di Paesi al mondo, a dimostrazione che i problemi dell’informazione e dei media sono assai simili un po’ dappertutto.
Tra tutti gli interventi, da segnalare quello incisivo di un noto sociologo francese, Dominique Wolton, agnostico, ma assai noto nel mondo cattolico per avere scritto due grossi volumi di interviste con l’allora cardinale di Parigi, Jean-Marie Lustiger, e più recentemente con papa Francesco. Cosa ha detto Wolton? Si potrebbe pensare che abbia semplicemente parlato di acqua calda, ma descritta in modo efficace e con argomentazioni serie, dall’alto della sua esperienza: dietro ogni atto di informazione c’è sempre una dimensione comunicativa, e alla fine la gente resta colpita da quest’ultima dimensione, più che da quella informativa.
È, questa, un’importante affermazione, che dovrebbe spingere il giornalista a capire che quando scrive una notizia non si può pensare di essere solo dei “trasmettitori” di news – asettici, neutrali, quasi inesistenti –, ma che la nostra presenza è in ogni caso assai importante e decisiva anche per aumentare la credibilità di quello che si dice. In qualche modo un’affermazione del genere, sostenuta da un francese, quindi da un esponente di una cultura estremamente “intellettuale”, va nella direzione di un’idea che si sviluppa ad esempio in Sudamerica, dove è evidente come l’informazione abbia delle implicazioni sociali che vanno tenute sempre presenti. In Brasile e Colombia si arriva a dire che il giornalista deve essere un «costruttore sociale». In Europa (più accademicamente forse) si parla invece di “comunicazione generativa”.
È importante dire tutto ciò nell’epoca della rivoluzione digitale e di quegli straordinari strumenti di informazione e comunicazione che sono i nostri telefonini – che in cento grammi raggruppano apparecchi che fino a qualche anno fa richiedevano di comporre delle troupe di vari professionisti, tra pesantissimi registratori, telecamere e luci che oggi sono concentrate nell’oggettino di tutti i desideri –: basti pensare al fatto che ormai tantissimi avvenimenti vengono registrati non dai giornalisti ma da chi casualmente si trova “sul luogo del delitto”, spesso senza avere alcuna nozione di quello che può provocare la pubblicazione di un fatto più o meno grave, e soprattutto del fatto che prima di dire che qualcosa, bisogna prendere quelle precauzioni che si imparano alle scuole di giornalismo.
Se si tratta ad esempio di un’inondazione, il fatto che vengano spedite on line e poi in onda delle immagini di una cascata di acqua e fango non è particolarmente grave, anche se può avere conseguenze di vario genere, compresa la crescita di una paura a volte ingiustificata. Diverso è il caso di fatti di sangue, che necessitano indagini approfondite che non danno sempre ragione alle immagini, che possono imbrogliare (eccome!), facendo credere che il fatto stesso di vedere qualcosa porti alla trasformazione del fatto in “verità”. Ovviamente il giornalista per tanto tempo è stato persona di terreno, scendeva nell’agone e nell’agora, intervistava, chiedeva, cercava di capire, e poi ce ne offriva la sintesi con la sua professionalità. Oggi è diverso, spesso e volentieri i giornalisti, sottopagati e sfruttati con orari impossibili, debbono rimanere incollati al proprio tavolo, anzi al proprio computer, non avendo le possibilità di verificare le notizie, se non con controlli incrociati, ma senza “vedere” coi propri occhi.
Ecco, a Lourdes s’è più volte parlato di reportage, il prodotto principe del giornalismo. Cioè vedere, ascoltare, interrogare, capire e, solo alla fine, pubblicare. Tutti convengono sul fatto che si debba tornare sul terreno. Anche se i problemi finanziari della stampa impediscono troppo spesso che ciò avvenga. Ecco allora un’altra convinzione emersa, che riguarderà tutti, anche i nostri lettori: bisogna produrre meno, ma di migliore qualità.