Giornalisti empatici

Il reporter può mettersi in una disposizione costruttiva e fiduciosa nei confronti dei propri interlocutori? Gli ultimi dolorosi avvenimenti legati alle migrazioni e alle guerre ci dicono che non solo ciò è lecito, ma auspicabile

Le recenti vicende che hanno avuto come protagonisti dei migranti nel Canale di Sicilia, così come altrove, hanno svelato un lato per tanti versi misconosciuto dei giornalisti, categoria sottoposta a stress notevoli di questi tempi, tra novità tecnologiche e pressioni politiche rinascenti. Se così si può dire, si sta svelando il lato “empatico” di chi per la natura della propria professione dovrebbe cercare “la verità” dei fatti, o perlomeno la loro veridicità, in ogni caso in un atteggiamento di obiettività, onestà e rispetto. I reportage sui migranti abbandonati in mezzo al mare si sono talvolta rivelati un po’ troppo strappalacrime, da libro Cuore, e non sufficientemente sostenuti da conoscenze storiche e geografiche adeguate, ma nell’insieme credo che la nostra categoria dando conto delle vicende delle migrazioni (e delle guerre) si stia riscattando, almeno un po’, da un appiattimento che minacciava e minaccia ancora la libertà di stampa.

Ma bisogna farsi la domanda: è compatibile l’empatia, cioè «la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva», stando al dizionario, con il giornalismo? Credo proprio di sì, e per diverse ragioni, seppur a certe condizioni.

Dapprima le condizioni: «Con nessuna o scarsa partecipazione emotiva», recita il dizionario. Il giornalismo di inizio millennio gioca molto, forse troppo, con le emozioni, ne abusa e a volte non ha altra freccia al proprio arco che le emozioni, senza rispetto per il reale svolgimento dei fatti. Ciò è dovuto al fatto che l’immagine è sempre più centrale nel nostro mestiere, e l’immagine imbroglia, il dettaglio di un’immagine può dare l’idea di verità quando è invece comprensione erronea dell’evento.

Una seconda condizione è che l’obiettività non venga mai meno, cioè la ricerca costante di fonti credibili e al limite sicure, il rigore dei controlli incrociati nelle redazioni, un’integerrima attenzione alla deontologia. Bisogna sempre tener presente che un testimone che vive una data situazione difficile e rischiosa, spesso non può avere quell’obiettività di giudizio che il giornalista deve invece avere.

Terza condizione perché l’empatia venga utilizzata dal giornalista, sta nel bisogno di dare voce non solo a una parte, ma alle diverse voci che sono in gioco in un dato contesto: penso alla guerra di Siria, come di qualsiasi altra guerra, in cui per capire la reale situazione non si può sposare al 100% solo l’opinione di una parte e le notizie che essa divulga, ma bisogna cercare di capire con sguardo “ecumenico”.

Quindi le ragioni per applaudire a un giornalismo “empatico”. La prima sta nel fatto che quei tuttologi che siamo noi giornalisti non possiamo avere conoscenza esatta della complessità dei fenomeni. Abbiamo sempre e comunque bisogno degli esperti, così come dei testimoni, anzi soprattutto di questi ultimi. Con essi – e in misura minore anche con gli esperti – l’empatia è non solo auspicabile ma necessaria per riuscire a raccontare “coi loro occhi” quanto succede.

La seconda ragione credo sia una motivazione filosofica: l’ermeneutica ci ha infatti insegnato che ogni evento non può mai essere raccontato nella sua realtà, ma solo in quella che io credo essere la realtà. Per questo il giornalista, per evitare di cadere nel tranello dei propri preconcetti e della propria lettura limitata degli eventi, ha bisogno dell’altro, di chi conosce meglio le situazioni. Tiziano Terzani, giornalista laicissimo alla scoperta del mondo, quando si recava in un Paese mai prima visitato, faceva visita come primo atto giornalistico al missionario di turno, persona che guardava alla realtà locale con indubbia empatia. Lo stesso si potrebbe dire oggi per gli operatori umanitari.

Terza ragione, più professionale: con un atteggiamento empatico, piuttosto che uno aggressivo, si riesce ad ottenere dai propri interlocutori una visione delle cose più corrispondente alla realtà. In qualche modo, l’interlocutore si esprime al meglio se di fronte trova un giornalista che ascolta con atteggiamento empatico.

La verità è difficile da maneggiare, da sempre. Nessuna persona a questo mondo la possiede appieno. Gesù disse: «Io sono la via, la verità, la vita». Chi di noi umani può dire altrettanto? Siamo seri: noi giornalisti possiamo solo cercare di essere obiettivi, onesti, documentati, capaci di controllare le fonti. E l’empatia può aiutarci in questo compito.

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