Giordania, mantenere la pace in mezzo alla guerra

Il regno hashemita di Giordania è il secondo Paese arabo (dopo l’Egitto) ad aver stipulato un trattato di pace con Israele fin dal 1994, ma la Giordania è anche il Paese dove oltre il 40% degli abitanti è di origine palestinese, compresa la regina Rania
Un'immagine del campo profughi Zaatari in Giordania. ANSA/FINZI

Una delle icone della Giordania, conosciuta in tutto il mondo, ha il nome e il volto di Rania al-Yasin, l’affascinante regina consorte di re Abdallah II. Si sono sposati nel 1993, quando lui non era ancora re e lei lavorava ad Amman per una famosa multinazionale di computer. Una cosa è sicura, oggi: qualsiasi notizia compaia su social, web o media relativa alla regina Rania, o alla famiglia reale giordana, si può stare certi che otterrà l’attenzione di ben più di mezzo mondo.

Regina Rania di Giordania, 29 marzo 2019. Ansa EPA/IAN LANGSDON

Per dire quanto la regina sia ammirata è sufficiente un numero: quello dei 6,5 milioni di follower che seguono il suo account Instagram. Non tutti fanno però attenzione ad un aspetto importante della sua biografia: Rania al-Yasin è nata (nel 1970) in Kuwait da genitori palestinesi della diaspora, originari di Tulkarem, nel nordovest della Cisgiordania, sotto occupazione israeliana dal 1967.

In Giordania (11 milioni di cittadini e qualche milione di rifugiati), tra prima (1948) e seconda (1967) diaspora, e successive, di profughi palestinesi ne sono arrivati circa 6 milioni, di cui oltre 4 milioni ormai con passaporto giordano. E fra i 2 milioni di rifugiati palestinesi senza cittadinanza non mancano quelli che portano appesa al collo, con orgoglio, la chiave della casa di famiglia, in Palestina: casa abbandonata molti o pochi anni fa da nonni o genitori. Una casa che con ogni probabilità non esiste più, e quella chiave appesa con fierezza al collo è segno di identità e della volontà di tornare a casa, e della rabbia contro chi ti ha costretto a lasciarla.

La Giordania è un piccolo Paese che accoglie molti rifugiati (oltre ai palestinesi, anche 1,3 milioni di siriani e non pochi iraqeni, soprattutto cristiani, ma anche yemeniti e perfino afghani), anche se con scarse risorse, poca acqua e zero petrolio. L’economia è molto dipendente da aiuti e investimenti statunitensi e sauditi, dal turismo (inshallah in ripresa dopo la pandemia e in crescita nonostante tutto anche quest’anno) e dalle rimesse dei tanti giordani che vivono e lavorano all’estero, spesso lasciando in patria genitori, fratelli, sorelle, anche figli e moglie.

Eppure, nonostante il grande numero di persone di origine palestinese (ca. 40% della popolazione) e la prossimità della guerra di Gaza (con tutto ciò che l’ha preceduta, la alimenta e ne deriva), la Giordania è finora rimasta sostanzialmente un’isola di pace, anche se con una stabilità in continuo precario equilibrio rispetto alle inquietanti onde che percorrono in lungo e in largo il mare magnum del Medio Oriente. Un equilibrio che deve non poco all’autorevolezza di cui gode la dinastia hashemita, in particolare il re Abdallah ma anche la palestinese regina Rania. Fra la popolazione non mancano certo manifestazioni di solidarietà ai palestinesi di Cisgiordania e Gaza e accese proteste contro la politica colonialista di Israele e del suo governo. Per la verità non manca neppure il dissenso verso la politica del re di una parte dei giordani indigeni, beduini e non solo, tanto che solo 3 anni fa è stato sventato un imminente tentativo di colpo di Stato per sostituire Abdallah sul trono, elevando al suo posto il fratellastro Hamza, a quanto pare consenziente. Tentativo di golpe non del tutto “ideato” in Giordania, comunque. Pur con il ricorso ad arresti, fermi amministrativi e all’onnipresenza di agenti dei mukhabarat (servizi di intelligence) il governo è riuscito finora a mantenere nel Paese un clima sociale e politico tutto sommato accettabile. E una situazione economica per quanto è possibile discreta, lontana mille miglia, per esempio, dal disastro del vicino Libano.

Tra le manovre pericolose tenute attentamente d’occhio, ci sono soprattutto i maneggi incrociati di alcuni “vicini” – come si accennava a proposito del mancato golpe del 2021 – che cercano di destabilizzare il regno. Non è un mistero che da anni l’Iran tenti di creare caos in Giordania per agganciare il Paese alla “mezzaluna sciita”, analogamente a quanto è successo in Iraq; e che una certa parte di ebrei israeliani farebbe carte false per “cacciare” in Giordania (ma non solo) tutti gli arabi presenti nei territori che ritiene esclusivamente israeliani (Cisgiordania e Gaza compresi).

Sabato notte 13 aprile si è presentata una situazione inedita: quasi 300 fra missili e droni iraniani diretti verso Israele hanno attraversato i cieli della Giordania. Oltre ad offrire supporto radar alle basi statunitensi presenti nel Paese, alcuni caccia giordani si sono alzati in volo e hanno contribuito attivamente ad abbattere droni.

L’intervento è stato polemicamente criticato in Giordania, non tanto per l’azione ostile all’Iran (temuto da quasi tutti) quanto piuttosto per quello che è apparso ai più come un aiuto agli israeliani. La risposta del governo è stata che la Giordania ha abbattuto i droni iraniani per preservare il proprio spazio aereo invaso senza consenso, e non per difendere Israele.

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