Giona, com’è profondo il mare

Il profeta, che Dio chiama ad andare a Ninive, ci aiuta a gettare uno sguardo su come anche ciascuno di noi risponde - o non risponde - alla propria vocazione.
Foto Ansa/EPA/KOSTAS TSIRONIS

Il mare è simbolo dell’inconscio. Gli esseri marini che vivono nelle sue profondità sono emblemi dei contenuti più nascosti della psiche. È nella profondità del mare che può avvenire la trasformazione. È avvenuta per Pinocchio. Essere inghiottito da una balena è l’evento cruciale che lo porta a incontrare Geppetto. Nelle profondità del mare-inconscio Pinocchio ritrova il padre amorevole, e poco dopo scoprirà anche se stesso, la sua umanità.

La favola di Pinocchio ha molti punti di contatto con una storia ben più antica, quella di Giona dell’Antico Testamento. Qui il padre è Dio, che mostra una grande pazienza nei confronti di Giona, profeta un po’ ribelle, disubbidiente. Uno che svicola, che non vuole grattacapi. Tutto comincia mentre Giona sta dormendo. Probabilmente sta facendo una pennichella in un pomeriggio mediorientale di caldo infuocato. Dio lo sveglia. Senza preamboli gli comanda: «Alzati, va’ a Ninive, e proclama che la loro malvagità è salita fino a me. Non ne posso più. Hanno superato ogni limite». Giona si stropiccia gli occhi. Si guarda attorno, non c’è nessuno. Eppure è certo di aver sentito quella voce. Nel suo cuore, sa pure da chi viene. È la voce di Dio. Che lo chiama. Sa che quella che ha ricevuto è una vocazione. Ma vorrebbe non averla ricevuta. Quel comando non gli piace affatto. ll nome Ninive lo predispone al malumore.

Ninive è la città degli Assiri, nemici giurati degli ebrei. È la città odiata, la prostituta, la maliarda, la maestra d’incanti. «Che ci vado a fare io là?» si chiede Giona. Che prevede solo rogne. Ci pensa un po’ su, poi che fa? Scappa. Si dirige verso sud, nella direzione opposta a Ninive, facendo finta di nulla. «Forse Dio non s’accorgerà della fuga» pensa tra sé. Dopo un lungo cammino raggiunge Giaffa, che oggi è un sobborgo inglobato nell’area urbana di Tel Aviv. Giaffa è considerato il porto più antico del mondo. Lì Giona cerca una nave per imbarcarsi. Vuole andare il più lontano possibile da Dio. Vuole scomparire. Trova una nave diretta a Tarsis, città che da alcuni è identificata con Gibilterra, la fine del mondo di allora, da altri con Nora-Pula, presso Cagliari. Compra il biglietto per il viaggio e s’imbarca.

Qualcosa di simile è capitato anche a me. Una sera, tanti tanti anni fa, durante un incontro di giovani a Bergamo, avevo sentito nel cuore la voce di Dio che mi faceva un invito: hai mai pensato di donare la tua vita totalmente a me? Mi prese un grande spavento. Molti partivano quella sera; il giorno dopo si fermavano solo quelli che volevano approfondire che cosa fosse la vocazione. Io avevo detto che mi sarei fermato. Ma quando gli altri partirono, partii con loro. Senza avvisare nessuno. Nel treno diretto a Torino, ero però molto triste. Uno degli animatori se ne accorse e mi chiese che cosa avevo. Gli dissi: «Sto fuggendo da Dio». «Allora è per questo che sei triste» disse lui. «Che cosa posso fare?» chiesi. «Scendi alla prossima fermata e torna indietro».

Feci così. Scesi. Era notte. Non sapevo dov’ero. Trovai un treno che andava a Bergamo. Non mi ricordavo però il luogo dov’erano gli altri. Autostop. A piedi. Chiedevo indicazioni ai passanti. Finalmente raggiunsi il posto. Nessuno si era accorto della mia partenza. Andai subito a letto. Ero sfinito. Ma in fondo al cuore sapevo d’aver fatto la cosa giusta.

Ora ritorniamo a Giona… Durante la traversata del Mediterraneo verso Tarsis, si scatena una tempesta paurosa. La nave si piega nelle onde, barcolla come una animale ferito, ansimante. I marinai e i passeggeri, impauriti, pregano i loro dei perché li salvino. Lanciano in mare tutto quanto hanno per alleggerire il carico. Giona dorme nella stiva. Per lui la tempesta è il male minore: meglio quella che seguire la missione affidatagli da Dio. I marinai lo svegliano e gli chiedono di pregare il suo Dio. Ma lui sa che non può farlo. Per la mentalità dell’epoca la tempesta era una punizione divina per il male commesso da qualcuno. E per capire di chi fosse la colpa, si doveva tirare a sorte. La sorte, per loro, esprimeva il giudizio di Dio. La sorte cade proprio su Giona. La colpa della tempesta è sua.

Giona non nega. «Che cosa hai fatto?» gli chiedono i marinai. Giona si solleva dalle coperte e ammette: «Fuggo dal Signore». Gli chiedono: «Che cosa dobbiamo fare di te per calmare il mare, che è contro di noi?». Il mare infuria sempre più, sconquassa la nave. Giona dice: «Prendetemi e gettatemi nel mare‘. I marinai sono sconvolti dalle parole di quel personaggio strampalato. Non vogliono gettarlo in mare. Provano con tutte le forze a remare per trarre in salvo la nave. Niente da fare. La tempesta è implacabile. Alla fine si arrendono e lo gettano in mare. Giona scompare nelle acque. La tempesta si placa all’istante.

Dio, che aveva seguito passo dopo passo il viaggio del fuggitivo Giona, manda un grosso pesce a inghiottirlo. Per gli antichi ebrei il mare ricordava il caos, il nulla, era un luogo di terrore. Profondo e pauroso come l’inconscio. Che cosa accade a Giona dentro la pancia del pesce? Non lo sappiamo. Rimane lì dentro, vivo, per tre giorni e tre notti. Questa espressione – tre giorni e tre notti – nel linguaggio biblico indica un evento decisivo. Infatti, nell’oscurità del ventre del pesce avviene la trasformazione. Giona fa pace con se stesso. E anche con Dio. Quando il pesce lo risputa a riva intatto, aveva ormai accettato la sua vocazione. Si alza sulla spiaggia, si scuote la sabbia di dosso e si avvia verso Ninive.

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