Gioacchino, parola sempre attuale
In auto con alcuni amici verso San Giovanni in Fiore, il borgo che qualcuno ha definito “capitale della Sila”. Raggiunto il suo nucleo più antico, quasi non abbiamo il tempo di ammirare la Sila Grande alle nostre spalle né, di fronte, il dispiegarsi della vallata del Marchesato di Crotone: ci preme, infatti, verificare se a quest’ora del pomeriggio troveremo aperta la celebre abbazia attorno a cui, a partire dalla fine del XII secolo, nacque e cominciò a svilupparsi il primitivo insediamento. “In Fiore” per ricordare Nazareth “fiore della Galilea”: nome dato a questa contrada dell’altopiano silano dallo stesso fondatore dell’Ordine florense, quel Gioacchino nativo di Celico i cui scritti – che hanno influenzato diversi grandi pensatori e scrittori lungo i secoli, ultimi Hegel, Schelling, Comte e Marx – vengono tuttora appassionatamente indagati da schiere di studiosi in Italia e all’estero, soprattutto negli Usa.
Decisiva per la scelta di questo itinerario è stata la lettura di una sua biografia romanzata di particolare valore storico e letterario, edita di recente dal Messaggero di Padova: L’aquila e la cetra, di Rocco Giuseppe Greco. Con un originale impianto narrativo l’autore, apprezzato scrittore e saggista cosentino, riesce a far dialogare in maniera significativa dato biografico e produzione letteraria, attraverso una rivisitazione accurata degli scritti dell’abate da Fiore e una coinvolgente contestualizzazione storica. Voce narrante è quella di frate Nicola, monaco florense e fedele scrivano di Gioacchino.
Aperta ma deserta ci accoglie l’abbazia, sorta alla confluenza dei fiumi Arvo e Neto. Pensata e disegnata da Gioacchino nel suo schema simbolico, ma da lui non vista costruita (fu eretta 12 anni dopo la sua morte avvenuta nel 1202 dal successore, l’abate Matteo), è un nobile esempio del più austero stile romanico. Immenso e quasi tenebroso l’interno, forato da finestre simili a feritoie, dal rosone e dagli oculi dell’abside, le pareti nude d’intonaco con a vista la loro tessitura in pietra. A tanta spoliazione fa contrasto, sull’altare, il monumentale ciborio ligneo di epoca barocca con la statua di Giovanni Battista. Chi più adatto del precursore di Cristo a intitolare questo tempio voluto dall’umile monaco che preconizzò l’avvento di una terza era, dopo quelle del Padre e del Figlio: l’era dello Spirito Santo?
Va tuttavia inteso bene il pensiero di Gioacchino da Fiore, vissuto – a suo dire – alla fine dell’era del Figlio, ma già proteso a scorgere l’alba della terza ed ultima: trattandosi della Santissima Trinità, tale partizione non è da intendersi in modo troppo schematico, proprio perché in ogni operazione attribuita ad una delle divine Persone intervengono sempre le altre due. Quanto poi a considerazioni sulla fine dei tempi, l’acuto commentatore dell’Apocalisse aveva sempre tenuto a precisare che il carisma da lui ricevuto riguardava la mirabile capacità di penetrare le Scritture, e non già l’annuncio di eventi futuri.
Fulcro del suo metodo esegetico per raggiungere la piena comprensione del messaggio biblico è il parallelismo storico tra l’Antico e il Nuovo Testamento insieme al significato spirituale della lettera di entrambi. Esemplare al riguardo è l’opera sua forse più famosa: La concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento. E pensare che anche lui, prima di essere riabilitato dai papi, soffrì ingiuste accuse di errori nei suoi scritti: sorte a cui non sfuggirono neppure san Tommaso d’Aquino e, in tempi più recenti, il beato Antonio Rosmini.
Chi vorrà di noi, potrà approfondire in altro momento qualcosa della vita e del pensiero del grande abate, magari iniziando da L’aquila e la cetra: nota rilevante del libro, infatti, è l’intento dichiarato dell’autore di rendere accessibile l’opera di Gioacchino non solo a specialisti e studiosi, ma ad ogni tipo di lettori.
Intanto, giunti nella cripta dove le sue spoglie sono custodite in un’urna di vetro, rendiamo omaggio a questo figlio illustre della Calabria, che ha illuminato il suo secolo e i seguenti. Durante la sosta silenziosa mi torna in mente un suo brano: «Come il Cristo si scelse non pochi discepoli per diffondere la lettera del Vangelo, così occorre che lo Spirito Santo si scelga quelli che vorrà per riportarne il significato quasi dalle tenebre alla luce spirituale e all’intelletto vivificatore, secondo il detto del Signore: “Non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi”».
Da secoli l’Ordine florense non esiste più. Al contrario, il messaggio spirituale di Gioacchino da Fiore conserva la sua freschezza e la sua attualità, proprio perché incarna le speranze e le attese di un mondo migliore, basato sulla pace e sulla concordia.
Usciti dal mistico raccoglimento dell’abbazia, ci riporta ai nostri giorni una schiera di colombi dalle sfumature grigio-azzurre intenti a razzolare sul sagrato. Spicca in mezzo ad essi per il suo candore una colomba di singolare bellezza, quasi a suggellare col suo significato simbolico la visita appena compiuta.