Gigi, mani d’oro e cuore puro
“Quando l’eterno Padre ha distribuito “le mani”, io me ne sono scelte due buone!”. Gigi spiegava così la sua grande abilità in tutto quel che faceva. E con quelle mani d’oro faceva “vivere” la carta come rilegatore di libri e insegnava agli altri come rispettare l’andamento delle fibre. Anche nell’erba di un prato o nelle foglie delle piante che curava con costanza scopriva un messaggio d’amore: “Ogni erbetta che spunta in sù, porta in sé una virtù”. Circa vent’anni fa, dopo aver perso la moglie, confidava: “Offro al Signore i giorni che ancora mi vorrà riservare e metto di nuovo tutti i miei fallimenti nelle sue “grandi mani”, come piaceva dire a lei ”. Questo totale abbandono è il leitmotiv che accompagna la vita di Gigi fin da bambino. Era nato il 26 agosto 1907 a Caldaro, importante centro vinicolo a pochi chilometri da Bolzano. Siamo al tempo dell’impero austroungarico di cui, oltre a Bolzano, fanno parte Trento e Trieste. Già orfano di madre, dopo l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria gli morì anche il padre, che faceva il bottaio, per un incidente sul lavoro. Fu allora che insieme al fratello minore venne mandato a guadagnarsi la vita in un “maso” (fattoria) come garzone di stalla. Aveva appena nove anni. Un giorno, mentre stava portando acqua alle mucche, si sentì improvvisamente chiamare da un cespuglio: era un soldato italiano scappato da un campo di prigionia austriaco. Nella sua generosità, Gigi gli procurò dei vestiti da contadino e gli offrì il suo letto, adattandosi a dormire nel fienile. Nel 1920 l’arcivescovo di Trento, venuto a sapere delle condizioni di miseria e maltrattamenti in cui vivevano i fratelli Covi, fece accogliere a sue spese Gigi e il fratello più piccolo presso gli “Artigianelli”, il collegio e scuola di avviamento professionale fondato da padre Pavoni. Gigi apprese il mestiere di rilegatore, diventando così esperto da rimanere lì fino a 20 anni. Non solo, ma siccome tra i ragazzi dell’istituto era nato un gruppo musicale, imparò a suonare l’ottavino con tale bravura che spesso faceva il sostituto del maestro. Dopo il servizio militare, trovò lavoro a Bolzano presso la tipografia Sitte, dove rimase per 12 anni. Passò poi alla tipografia Athesia, grazie alla sua conoscenza del tedesco. Ma le ambizioni fasciste avevano aperto nuovi fronti di combattimento. Così Gigi venne richiamato alle armi per andare in Etiopia. Prima però fece tappa al centro equipaggiamento di Foligno, dove si veniva vaccinati contro le malattie tropicali, rivelandosi così abile nel fare le iniezioni che il medico fece in modo di trattenerlo lì fino a guerra conclusa. Nel 1937 sposò Maria Giacomelli, da cui ebbe Manlio e poi Lorenzo. Seguirono Cecilia, Lucia, Damiano e Giacinta. Tutti educati cristianamente alla generosità verso gli altri, al sacrificio. Del periodo in cui la famiglia sfollò a Tires, un paesino remoto di montagna, Manlio, che allora aveva 6 anni, serba questo ricordo: “Un pomeriggio era suonata la sirena che annunciava un possibile bombardamento. Nessun aereo alleato avrebbe mai sprecato una bomba per quel paese. Nonostante ciò si correva nei rifugi e noi più piccoli eravamo più spaventati dal vociare concitato delle donne che dal reale pericolo… “Io ero suggestionato da questo loro comportamento e in ansia per la vita di papà. Quando riuscii a vederlo sentii in me un grande orgoglio: mio padre era un “grande”, camminava lentamente e sorrideva Guardava in alto e sorrideva. Ne aveva viste così tante che quel passaggio di aerei lo faceva sorridere”. Un giorno – era dopo l’armistizio – dal comando tedesco che occupava Bolzano venne l’ordine di stampare un libro di Rosenberg, scrittore legato al regime nazista e animatore della campagna antisemita. Gigi, che era il direttore tecnico, andò a mostrare il manoscritto al vescovo, il quale lo scongiurò di non stamparlo. Era il novembre del 1954 quando nella sua tipografia capitò una focolarina. Sentir parlar di Dio in modo così semplice, come non gli era mai capitato prima, lo conquistò. L’impatto con l’ideale dell’unità aveva cominciato a cambiare questo altoatesino spigoloso, esigentissimo con i figli, forse per la dura infanzia vissuta. Cosa stava succedendo? Aveva intravisto come realizzare tutte le sue aspirazioni, e quale mondo costruire per loro. Fu tale la luce della nuova comprensione di Dio da infondergli pace e fiducia, e togliere alla stessa idea di morte il senso di crudo che di solito l’accompagna. Lo avvinceva inoltre la possibilità di testimoniare agli altri il “sovrappiù” promesso dal vangelo a chi cer- ca il Regno di Dio; e anche di aiutare i prossimi a fare delle scelte politiche e sociali giuste. Nel 1960, quando il movimento decise di stampare in proprio pubblicazioni di Città Nuova, Gigi aderì subito alla richiesta di trasferirsi con tutta la famiglia sui Castelli Romani, lasciando il suo posto molto ambito all’Athesia per l’avventura di una tipografia a Grottaferrata. Coinvolti in questa scelta radicale, i cinque figli si trovarono anche loro a dover lasciare tutto: compagni di scuola, amicizie… E poi non era mica facile trovare pezzi di ricambio in una città poco industrializzata come ancora era Roma. Perfino la lingua era un’altra. Erano considerati “stranieri”. Chi lo conobbe e lavorò con lui in quegli anni, ricorda la sua grande competenza nel lavoro, la sua dedizione ad esso e il conflitto, inevitabile, fra l’esigenza più che legittima di perfezione, e le ovvie difficoltà di insegnare il mestiere a maestranze spesso improvvisate di stampatori inesperti. Allora veniva in evidenza la battaglia che si scatenava dentro di lui fra ciò che richiedeva un lavoro ben fatto e i limiti del contesto in cui si doveva operare. Vinceva sempre la carità, fatta di comprensione verso chi sbagliava. Si dimostrò quella la miglior scuola per allevare generazioni di tipografi, come effettivamente fece. Rimasto vedovo nell’83, essendo ormai i figli sistemati, Gigi chiedeva ed otteneva di essere accolto in focolare. “Pur avanti negli anni e con un imponente bagaglio di esperienza – ricorda uno dei suoi compagni, Giancarlo -, si inserì con delicatezza, sempre attento a un’autentica vita di comunione di cui non cessava mai di evidenziare la sacralità. Nello stesso tempo, tutta la sua famiglia gli era costantemente presente, e in modo specialissimo la moglie Maria. “Vorrei ricordare soprattutto un episodio: la mattina del 22 giugno 1993 Cecilia e Manlio mi comunicavano la morte, la sera prima, del fratello Damiano per un incidente motociclistico e che sarebbero venuti qualche ora più tardi a comunicare la notizia al papà. “Proposi a Gigi di meditare insieme quella pagina della Sacra Scrittura che parla di Abramo. Alzando lo sguardo scorgevo nei suoi occhi un’innocenza sconfinata che in qualche modo faceva da preambolo al momento successivo. “Arrivarono dunque Cecilia e Manlio. Alla notizia, la vecchia quercia, come colpita da un fulmine, traballò per un attimo, tutta scossa dalla chioma alle radici. “Damiano!” e, letteralmente, un secondo dopo disse: “Preghiamo insieme!”. Da quel momento si preoccupò unicamente di sostenere la nuora, il nipote, i figli, tutti i parenti…”. Aveva superato i 90 anni eppure era sempre attento a come si vestiva, dotato com’era di un grande senso dell’armonia. Fino alla fine, giunta il 21 maggio scorso, Gigi continuò la sua vita con l’equilibrio e la solidità di sempre. Proverbiale il suo humour. Come quando, risultando i suoi valori perfetti dopo qualche controllo medico, con un sorrisetto furbo esclamava: “Mi toccherà morire sano!”. “Quando anni fa – aggiunge Gianmario – si prospettò la possibilità che un focolarino molto malato venisse ad abitare nell’ultima residenza di Gigi, c’era bisogno di una camera comoda e adatta alle cure. Gigi senza difficoltà offrì la sua, dotata di una poltrona dove era solito leggere. “”Ma tu ne hai bisogno!”, gli facemmo osservare. E Gigi: “È una vita che cerco di fare la volontà di Dio, e adesso vuoi che sia attaccato a una poltrona?””. Il suo insegnamento rimane proprio questo distacco da tutto per essere libero di aderire alla volontà di Dio: “Come quando – ricorda Cecilia – siamo andati a vedere la casa dove abitavamo, all’ultimo piano dell’edificio dell’Athesia, bombardato nel ’44. Guardavamo le macerie. Papà si cerca in tasca, prende le chiavi di casa, le butta in mezzo ai calcinacci. “Non mi servono più” dice serenamente. Papà non ha mai avuto, né considerato niente suo. Esistevano gli altri, gli altri, gli altri. Questo ce lo ha messo nel sangue. Le cose migliori, le cose belle bisogna darle agli altri”.