I giganti del Sinis

Cosa rappresentano le enigmatiche sculture di epoca nuragica rinvenute a Mont’e Prama?
La testa di uno dei "Giganti di Mont'e Prama" (foto Wikipedia)

Chi erano e da dove provenivano gli Shardana? È questo il nome di uno dei “popoli del mare” raffigurati nel tempio di Medinet Habu in un bassorilievo commemorativo della battaglia che intorno al 1200 a.C. aveva sventato il loro tentativo di penetrare in Egitto. L’iscrizione scolpita li descrive come abili navigatori e guerrieri «venuti con le loro navi da guerra dal mezzo del gran mare», ma non aggiunge altro.

Oggi diversi studiosi, basandosi anche sul confronto tra gli Shardana del bassorilievo e i bronzetti nuragici, in tutto simili per equipaggiamento e per navi, li vogliono originari della Sardegna, quando non provenienti da Ur intorno al 2000 a. C. in seguito alla dissoluzione dell’impero accadico. Ottenuto il predominio sulle locali popolazioni neolitiche, i nuovi venuti avrebbero costruito i nuraghi secondo tecniche apprese dagli egizi nelle loro scorribande attraverso il Mediterraneo. Secondo altri, invece, la Sardegna avrebbe offerto loro solo delle basi di scalo dove rifornirsi di acqua e viveri e commerciare con i Nuragici, ai quali essi avrebbero trasmesso le conoscenze necessarie per erigere quelle celebri costruzioni megalitiche.

Insomma, c’è da percorrere ancora molta strada per arrivare a ipotesi condivise: ciò che contribuisce ad avvolgere gli antichi popoli sardi in un alone di mistero che rende più affascinanti le testimonianze monumentali disseminate nell’isola.

Mistero che s’aggiunge a mistero è quello che ha come scenario la penisola di Sinis, nell’Oristanese. Qui in località Mont’e Prama (ovvero Monte delle Palme, in riferimento alle palme nane di cui un tempo abbondava il sito), scavando tra il 1975 e il 1979 una necropoli di tombe individuali, vennero rinvenute 30 figure maschili scolpite in arenaria gessosa. Alte mediamente 2,50 metri circa e ridotte intenzionalmente in oltre 5000 frammenti, rappresentavano arcieri, pugilatori e guerrieri con l’arcata sopracciliare e il naso molto marcati, gli occhi incavati nel volto e resi con un doppio cerchio concentrico dall’effetto ipnotizzante, e la bocca indicata da un’incisione.

Mai, in precedenza, l’isola famosa per i raffinati bronzetti esportati in tutto il mondo allora conosciuto aveva restituito sculture in pietra così gigantesche (e probabili modelli di riferimento di quei manufatti). Attribuite alla cultura nuragica del IX-VIII secolo, erano dunque più antiche – e qui l’eccezionalità della scoperta –rispetto alla statuaria fenicia, greca, etrusca, italica, celtica e iberica. Singolari testimonianze di una civiltà autonoma e avanzata, erano riemerse insieme a decine di modelli di nuraghe di tipologia inconsueta e a quelle pietre sacre o betili così frequenti sul suolo sardo quale contrassegno alle cosiddette “tombe di giganti”.

Dopo una trentennale interruzione, gli scavi ripresi nel 2014 riportarono alla luce altre due statue monumentali, stavolta quasi integre, e ancora modellini di nuraghi e betili. Documenta questa fruttuosa campagna di ricerche, cui hanno partecipato anche detenuti della casa circondariale di Oristano, il volume a cura di Gaetano Ranieri e Raimondo Zucca Mont’e Prama/1 edito da Carlo Delfino, che si avvale dei contributi di una cinquantina tra docenti e studenti, ed è frutto della collaborazione tra la Soprintendenza Archeologica e le Università della Sardegna che operano nell’ambito della ricerca scientifica.

Alla domanda su cosa rappresentino queste inquietanti sculture – 25 delle quali, ricomposte dopo un lungo e difficile restauro, formano oggi il vanto dei musei di Cagliari e di Cabras – gli studiosi possono rispondere solo genericamente: eroi o antenati “eroizzati” posti a protezione di tombe eccellenti nell’ambito, forse, di un santuario unico nel suo genere, legato a una federazione di villaggi. E ancora: perché le statue vennero distrutte, e da chi? Di quale culto erano oggetto? Come le lavorarono gli artefici, visto che la perizia con cui vennero realizzate anche nella decorazione rivela l’uso di strumenti simili a quelli moderni?

Senza dare risposte certe a questi ed altri interrogativi a motivo dell’incompletezza degli scavi, il volume è comunque un luogo dove condividere riflessioni e formulare ipotesi di lavoro riguardo a quello che – a giudicare dalle indagini effettuate col georadar – si sta rivelando il più importante sito archeologico dell’isola.

Proseguiranno le ricerche, tenuto conto che «i settori di Mont’è Prama finora indagati sono una parte davvero irrisoria del giacimento archeologico globale»? In attesa di rivelarci i loro segreti, i giganti musealizzati hanno ricevuto nomi in lingua sarda: Lussurgiu, Maneddu, Crabarissu, Fastigiadu, Efis, Balente, Tineddu e così via… Un modo, forse, per sentire più umani, più familiari questi “alieni” venuti dal Sinis.

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