Giano e Minerva. Come si risponde ad un conflitto
L’Europa, a differenza dell’America, ha da tempo rinunciato, in virtù della sua storia, costellata di conflitti, all’uso della forza, che rifiuta ora di contemplare nei termini di una categoria politica, o, come avrebbe detto Clausewitz, come modalità di continuazione della politica con altri mezzi. Non si tratta perciò di una conseguenza della debolezza militare dell’Europa rispetto alla preponderanza della macchina bellica americana. Tale debolezza deriva infatti non da una fatalità, ma da una scelta politica deliberata, che gli Stati Uniti non hanno compiuto e non sembrano intenzionati a fare nel prevedibile futuro per la semplice ragione che il loro percorso storico (in gran parte vincente) non li ha ancora convinti della necessità di tale svolta.
[…]
Kagan descrive il diverso rapporto dell’America e dell’Europa rispetto all’uso della forza con un riferimento a due divinità dell’Olimpo: Marte e Venere. Da parte sua, Hoffmann evocava più di due decenni fa le figure di Giano e Minerva per contrapporre il volto bellico a quello saggio delle relazioni internazionali. Anche se occorre riconoscere che il confine tra condizioni di pace e situazioni (para)conflittuali diventa sempre più labile e sfuggente.
Direi perciò che oggi è decisamente l’ora di Minerva, poiché solo un approccio riflessivo dell’Europa alle (sue) relazioni internazionali può accrescere la sicurezza europea. Infine, l’annunciata, maggiore propensione americana verso il soft power può avere implicazioni di rilievo anche sul rapporto con l’Unione Europea, che proprio a tale strumento deve quasi per intero la sua influenza, come dimostra tutto il processo di allargamento e l’ancora fortissima capacità di attrazione che tale prospettiva esercita sui Paesi balcanici e del vicinato orientale. Su queste caratteristiche si direbbe quasi genetiche si sono soffermate le analisi più avvertite.
A corroborare questa idea di sicurezza coniugata in termini di pace, è giunto il conferimento del Premio Nobel per la pace 2012 all’Unione Europea. Una scelta imprevista e per molti versi sorprendente, ma – a ben guardare – fondata su solide basi storiografiche e politologiche.
Non sono mancate critiche alla scelta del Comitato del Nobel. Taluni osservatori – che possiamo definire “atlantisti” in senso lato– hanno accusato i commissari di Oslo di essere caduti in una logica fallace, del tipo post hoc, propter hoc: l’integrazione europea – secondo tali voci di dissenso – non sarebbe la causa prima della stabilizzazione del continente dopo la Seconda guerra mondiale, ma solo una conseguenza incidentale della garanzia militare americana di ultima istanza su cui ha potuto contare l’Europa occidentale durante la Guerra fredda. Da questo punto di vista, si è sostenuto che il Nobel avrebbe dovuto essere assegnato ex aequo anche agli Stati Uniti e persino alla NATO, per essersi fatti carico della sicurezza europea durante la divisione del continente in due blocchi.
Con tutto il rispetto delle opinioni contrarie, a me sembra, invece, che l’articolata motivazione del premiosia pienamente condivisibile. L’Unione Europea – afferma il Comitato del Premio Nobel – ha contributo per oltre sei decenni al progresso della pace e della riconciliazione, oltre che della democrazia e dei diritti umani in Europa. I commissari del Nobel forniscono un’importante e oggi sottovalutata chiave di lettura: la riconciliazione franco-tedesca, conseguita in modo stabile e strutturale proprio dall’Unione Europea, tanto da rendere impensabile la prospettiva di un conflitto tra queste nazioni che – tra l’800 e la metà del ’900 – avevano combattuto tra loro tre guerre distruttive nell’arco di soli 70 anni. Questi due “nemici storici” divennero partner politici ed economici proprio grazie al processo di integrazione europea.
Questa ricostruzione del ruolo dell’Unione Europea come un’istituzione capace, in sostanza, di rendere la guerra, almeno in Europa, oltre che concettualmente impensabile, un’opzione impraticabile, una pratica desueta e uno strumento inutile, costituisce per il Comitato del Nobel una legittimazione politica fondamentale della vicenda integrativa del continente.
[…]
In effetti la motivazione del Nobel è ampia, e per nulla irrilevante rispetto alla condizione dell’Europa contemporanea. In essa si ricorda come il ritorno alla democrazia di Grecia, Spagna e Portogallo abbia rappresentato, negli anni ’80, la pre-condizione per la loro ammissione nell’Unione Europea. Il crollo del Muro di Berlino permise successivamente la riunificazione del continente, che trovò proprio nell’Unione Europea una piattaforma politica ed economica appropriata e funzionale. Inoltre – continua il Comitato del premio Nobel – l’ammissione della Croazia dal 1° luglio 2013, l’apertura di negoziati di adesione con il Montenegro e la concessione dello status di Paese candidato alla Serbia rappresentano altrettanti contributi dell’Unione Europa alla riconciliazione nei Balcani. La stessa prospettiva di una futura adesione all’Unione da parte della Turchia – per quanto complessa e non certamente immediata – ha giocato un ruolo non secondario nel consolidamento delle istituzioni e dei processi democratici in quel Paese.
Ma i commissari del premio norvegese rendono anche più esplicito il significato politico della loro scelta, non esitando a collegare tale decisione alle presenti difficoltà economiche e al forte disagio sociale che colpiscono molti Paesi membri dell’Unione. È proprio in tale situazione di crisi, in cui sembrano essere rimessi in discussione gli stessi fondamenti integrativi del progetto europeo, e in cui si manifestano, anzi, segni di disgregazione, che è importante mettere in luce ciò che l’Unione Europea ha rappresentato e tuttora rappresenta in quanto istituzione dai caratteri parzialmente sovranazionali che è stata in grado di trasformare l’Europa da un continente di guerra in un continente di pace.
Il Nobel per la pace all’Unione Europea stride, inoltre, con le rappresentazioni – irresponsabili oltre che infondate – dei contrasti sulle modalità per fronteggiare la crisi del debito nell’Eurozona come una sorta di “surrogato” di una nuova guerra europea, se non nei termini di una vera e propria fase prodromica di un nuovo conflitto di portata potenzialmente mondiale.
Tutto ciò sarebbe più che sufficiente a giustificare la decisione presa a Oslo. C’è però una conclusione, nella motivazione, che mi sembra tutt’altro che rituale e di circostanza: il Comitato afferma, infatti, senza esitazioni e in modo esplicito, che l’Unione Europa rappresenta un primo esempio di quella “fraternità tra le nazioni” preconizzata da Alfred Nobel. Fa riflettere questo riferimento a una categoria – quella della fraternità – a cui ad esempio la teoria delle relazioni internazionali non è affatto abituata e che solo di recente è stata riproposta tra i temi di riflessione teorica, benché formulata nei termini più generali di “amicizia politica”.
Da Pasquale Ferrara, La politica inframondiale, le relazioni internazioni nell’era post-globale (Città Nuova, 2014)