Gheddafi. Il sangue, l’oro e il cellulare
Il rais è stato fatto fuori. Morte sul campo, come annunciato, come forse voluto. Resta da costruire la pace. Il commento di mons. Martinelli
Come Benito, come Saddam, come Nicolae. Come tanti dittatori scovati nei loro nascondigli e uccisi dalla furia popolare, dietro cui spesso e volentieri si nasconde una mano prezzolata, qualche servizio segreto, qualche vendetta politica particolare. Anche stavolta si sente parlare di scenari diversi da quelli che ci hanno mostrato in tv, uno Stato confinante che avrebbe scaricato Gheddafi, o venduto, o abbandonato. Chi lo sa. Fatto sta che il dittatore più corteggiato e più vituperato del mondo (non dimentichiamo che anche il “vincitore” Sarkozy lo corteggiò) ha terminato la sua vita terrena in modo violento e brutale.
Come in uno sceneggiato televisivo.
Restano così tre icone dell’ultimo episodio della soap opera: il volto insanguinato del dittatore, dapprima ancora vivo (almeno così sembra, si attendono conferme), poi morto, un punto nero sulla tempia, un rivolo di sangue sul petto; la pistola d’oro di Gheddafi (si attendono conferme certe anche al riguardo), simbolo del doppio potere esercitato, del militare e del mercante; infine i telefonini, che hanno ripreso le scene macabre della fine del rais (una foto mostra il corpo del rais ricomposto per terra, e una selva di ribelli che cercano di immortalarlo col loro cellulare).
Al di là della fine televisiva, trionfo della civiltà dell’immagine, restano le profonde incertezze sul futuro – si parla assai frequentemente di una guerra civile alle porte, che si teme infinita –, mescolate ad un sentimento di liberazione: anche coloro che erano favorevoli al rais si trovano oggi in effetti liberati da un incubo lungo 246 giorni, cioè quanto è durata la guerra. Resta il fatto che un governo non c’è ancora, che le strutture di polizia e di amministrazione non sono ancora in piedi a dimensione del Paese, che le diverse tribù non hanno ancora trovato accordi percorribili, che i fanatici legati al wahhabismo sono in agguato.
«Una pagina della storia libica si è conclusa – mi dice un mons. Giovanni Innocenzo Martinelli dalla voce “liberata” –, la guerra della Nato ha ottenuto quello che voleva, anche se i libici sono oggi orgogliosi di averlo ucciso loro, e non i mirage francesi». Ora arriva la fase della costruzione della pace: «Il comitato di liberazione – continua il presule – ha il campo libero per realizzare le sue riforme. Cercando di federare le forze di pacificazione, ed emarginando quelle che soffiano sul fuoco della divisione». Timori di guerra civile? «Non credo, almeno per il momento».
La comunità cattolica oggi pregherà per i morti della guerra, e quindi anche per Gheddafi, «ma soprattutto per i libici, perché sappiano trovare la loro via. Gheddafi ha avuto tanti torti, ma certamente aveva dato al popolo libico l’orgoglio dell’indipendenza». Poi, però, «il potere assoluto e la corruzione che ne è seguita – spiega mons. Martinelli – ha deviato alcune buone intenzioni del rais. E bisogna tener anche conto che gli Occidentali avevano dato troppa importanza a Gheddafi, nel senso di demonizzarlo o al contrario di blandirne l’orgoglio, ma sempre per fini propri».