“Gesù in mezzo” a noi: la “interiorità dilatata” secondo Chiara Lubich
In che modo il carisma dell’unità “risolve” un paradosso cristiano: la dinamica interno-esterno? Un approccio originale: interiorità e amore fraterno in una relazione di reciprocità. Elementi essenziali dell’esperienza e del pensiero della fondatrice dei Focolari.
Se si volesse esprimere in una parola la spiritualità di Chiara Lubich, questa sarebbe: “unità”. Lei stessa lo ha affermato molte volte.
La scoperta della preghiera “sacerdotale” di Cristo, della sua richiesta al Padre “che tutti siano una cosa sola” (cf. Gv 17, 21), ha dato lo slancio alla sua missione, il suo senso, le ha dettato l’architettura della sua opera: per Chiara l’unità è la suprema volontà di Gesù, la sintesi di tutti i suoi desideri.
Se Gesù ha pregato così il Padre c’è forse qualche cosa di più grande del collaborare con Lui, affinché la sua preghiera sia esaudita? Queste parole divengono la magna charta del Movimento dei Focolari sin dai suoi inizi.
Ma si può ugualmente dire che la spiritualità di Chiara stia nel binomio: unità e Gesù Abbandonato, anzi, Gesù Abbandonato e unità. La sua spiritualità è quindi centrata sul mistero pasquale.
Non sarebbe neppure errato affermare che la parola-sintesi della sua spiritualità (di ciò che Chiara Lubich chiama “l’Ideale”) è “Gesù”, Gesù Cristo. Lei stessa, sempre in cerca di sintesi, di scorciatoie concettuali, lo ha detto: “L’Ideale è Gesù”. Significa essere Gesù, riviverLo, essere e pregare in Lui. È far nostre e tradurre in vita due sue preghiere, perché siano esaudite: “Padre, che tutti siano uno” e “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” (cf. Mt 15, 34): l’una riguardante il destino di tutta l’umanità, l’altra quale domanda di senso dell’uomo sofferente. Una spiritualità davvero cristocentrica.
Ora Gesù è persona singola, la seconda persona della Trinità, il Verbo incarnato, seduto alla destra del Padre nella gloria, ma è anche, dopo la sua incarnazione-morte-risurrezione, persona “collettiva”, risorge in un Corpo: la Chiesa. E tale seconda dimensione è stata colta senz’altro, da Chiara, in un modo del tutto particolare. Come?
La presenza di “Gesù in mezzo”
È necessario innanzitutto ritornare all’episodio fondante. A 19 anni Chiara partecipa a un convegno dell’Azione Cattolica a Loreto, città delle Marche, dove una “chiesa-fortezza” custodisce una piccola casa che, secondo una tradizione, sarebbe la casa di Nazareth. Chiara si raccoglie spesso in questa “casetta” ed è qui che accade qualcosa di inatteso: è avvolta da una presenza del divino così forte da esserne letteralmente “schiacciata”, come lei stessa racconterà.
Lacrime di commozione scendono senza controllo sul suo volto. Durante tutto il soggiorno a Loreto, Chiara è misteriosamente attratta da quelle quattro mura come da una calamita. Più tardi, vi vedrà un segno precursore della vita di quelle piccole comunità che sono i “focolari”. Ma siccome mette l’accento nel suo racconto sulla realtà della presenza di Gesù, si può anche interpretare quest’episodio come una intuizione particolarmente forte, una presa di coscienza della presenza realmente operante del Risorto tra gli uomini.
Quando Chiara si commuove, immaginando Gesù bambino nella casa di Loreto, con Maria e Giuseppe, non è che pensi tanto alla vita nascosta di Nazareth, quanto al fatto che egli sia in mezzo a creature umane. Chiara percepisce la presenza del Risorto nel mondo, e tale presenza la sconvolge, poiché sempre la presenza di Dio turba, sconvolge colui che l’avverte.
A Loreto lo Spirito ha posto in Chiara un seme che crescerà, un dono di fede: la certezza che il Risorto è presente nel mondo, tra gli uomini. È un autentico carisma che la colloca pienamente nel solco della Chiesa primitiva, il cui kerygma, e cioè annuncio, consisteva nel proclamare che Gesù è risorto, è vivo. “Dio ha costituito Signore e Cristo ( qui vuol dire ‘risorto’) quel Gesù che voi avete crocifisso” (cf. Atti 2, 36).
Come una persona che vede l’invisibile (cf. Eb 11, 37), Chiara si è impegnata durante tutta la sua esistenza ad esprimere e tradurre in vita la certezza che Egli è vivo, che è tra noi. A questa presenza di Gesù risorto nella storia degli uomini e in mezzo a loro tendono tutte le altre presenze di Gesù nella Chiesa (nella Parola, nell’Eucaristia, nel ministero ordinato, nel fratello, dentro la nostra interiorità…) e da essa traggono origine.
Quando, negli anni quaranta, scopre nel Vangelo di Matteo la frase: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (18, 20), Chiara attribuisce a questo passo un senso pieno, senza ridurlo alla liturgia o alla preghiera comunitaria. Il suo ultimo testamento sarà: “Vi lascio questo Gesù!… È questo il Gesù che doveva tornare”[1].
Il “castello esteriore”
Questo dono dello Spirito Santo non ha distolto Chiara dal guardare i santi e dal prenderli come modelli. Anzi. Fin dall’inizio, cammina in compagnia di san Francesco e santa Chiara (era terziaria), di Caterina da Siena (era italiana), santi per i quali l’interiorità era più personale. L’incontro suo con santa Teresa d’Avila ha una valenza un po’ particolare e merita una menzione a parte.
Come mai? Essendo la via che lo Spirito Santo indica a Chiara come nuova e particolare, non sono mancate critiche e perfino persecuzioni, già nei primi anni del Movimento. Anche da parte di uomini di Chiesa. Perciò quando nel 1961 in un’opera di Santa Teresa d’Avila Chiara scopre, quanto agli effetti, un cammino di santità simile al suo, ha un grande sollievo, una grande gioia. Una conferma meravigliosa che anche la sua era una via di santità.
In seguito, venuta a conoscenza di ciò che Teresa chiama il “castello interiore”, nella cui ultima dimora si giunge all’unione trasformante poiché lì risiede “Sua Maestà”, Chiara riprende l’analogia del castello per esprimere l’elemento più caratteristico della propria spiritualità: il castello in cui possiamo trovare Dio non è solamente in noi, ma anche tra noi, fratelli e sorelle uniti nel nome di Gesù. La presenza di Dio non è dunque unicamente nel “castello interiore”, come per Teresa, ma anche nel “castello esteriore”, complementare a quello interiore. “Sua Maestà”, centro del nostro “castello esteriore”, è Gesù presente “in mezzo” a noi.
Per tutti questi motivi, nel 2002, in visita ad Avila, può lasciare scritta la sua riconoscenza a Teresa nel Libro d’Oro degli ospiti:
“Grazie, santa Teresa,
di tutto quanto hai fatto per noi
durante la nostra storia.
Grazie!
Ma il più bel grazie
te lo diremo in Paradiso.
Continua a vegliare su tutti noi,
sul nostro “castello esteriore”
che lo Sposo ha suscitato sulla terra
a completamento del tuo “castello interiore”
per far la Chiesa bella come la desideravi”.
C’è dunque una “interiorità” che si trova anche nel “castello esteriore”. Lì dobbiamo cercare “Sua Maestà”, se vogliamo pervenire all’unione con Dio.
Vivere tra “due fuochi”
Giovanni Paolo II era solito utilizzare la metafora dei “due polmoni” per parlare della Chiesa d’Occidente, che respira pienamente solo se si apre all’Oriente e viceversa. Riprendiamo l’analogia applicandola alla nostra vita cristiana: essa deve respirare a pieni polmoni, con i suoi due polmoni, cioè con Cristo in noi e con Cristo “in mezzo” a noi. Dobbiamo camminare, dice Chiara, su “due gambe”, vivere tra “due fuochi”: così come avverto la presenza di Dio dentro di me, allo stesso modo devo imparare ad aprirmi e a cercarla fuori di me.
Così come Dio mi è intimo, allo stesso modo è intimo al “me” che è il Corpo di Cristo, la Chiesa, l’umanità. Chiara parla anche di gallerie, vedendo il Corpo mistico come una rete di gallerie che rimangono nell’oscurità, finché Gesù non vive nel rapporto tra le persone. Lo sente come una carenza nella Chiesa attuale:
“La Comunione dei Santi, il Corpo mistico c’è. Ma questo Corpo è come una rete di gallerie oscure.
La potenza di illuminarle c’è: in molti è la vita della grazia. Ma Gesù non voleva solo questo quando si rivolse al Padre, invocando. Voleva un Cielo in terra: l’unità di tutti con Dio e fra loro: la rete di gallerie illuminata; la presenza di Gesù in ogni rapporto con gli altri, oltre che nell’anima di ognuno”[2].
Gesù “in mezzo” a noi! Non è un sacramento come il battesimo, l’Eucaristia o, in senso più ampio, il fratello. È “il” sacramento originario (l’Ur sacrament) da cui derivano tutti gli altri. Vivere per Gesù “in mezzo” a noi significa credere nel Risorto, esprimere la nostra fede che Gesù risorge in un Corpo che è la Chiesa. Lasciamo ancora parlare Chiara:
“Se siamo uniti, Gesù è fra noi. E questo vale. Vale più d’ogni altro tesoro che può possedere il nostro cuore: più della madre, del padre, dei fratelli, dei figli.
Vale più della casa, del lavoro, della proprietà; più delle opere d’arte d’una grande città come Roma, più degli affari nostri, più della natura che ci circonda con i fiori e i prati, il mare e le stelle: più della nostra anima!
È lui che, ispirando i suoi santi con le sue eterne verità, fece epoca in ogni epoca.
Anche questa è l’ora sua: non tanto d’un santo, ma di lui; di lui fra noi, di lui vivente in noi, edificanti – in unità d’amore – il Corpo mistico suo”[3].
Una interiorità potenziata
Ma la dimensione d’interiorità non è ignorata, anzi, direi, viene potenziata. Cristo ha già realizzato l’unità di tutti gli uomini: con la sua morte ha attirato tutti a sé (cf. Gv 12, 32); con la sua risurrezione è il centro verso cui convergono l’universo e la storia degli uomini. Per dare il nostro contributo all’unità, spiega Chiara, bisogna rivivere Cristo, essere un altro Cristo.
La nostra parte consisterà prima di tutto nel rimanere in lui, perché la sua volontà diventi la nostra. Si tratta dunque di “vivere dentro”. Questa “molla spirituale” che attira la nostra anima nel più profondo è assolutamente necessaria:
“Vogliamo convertirci, Signore. Finora siamo vissuti ‘fuori’; d’ora in poi dobbiamo vivere ‘dentro’, come Maria.
Perché anche il vivere ‘fuori’, proiettati nei prossimi o nelle opere – pur per amor di Dio – se non è corretto da una molla spirituale che attira continuamente l’anima nel suo profondo, può essere motivo di divagazione, con molte chiacchiere inutili, con ‘cose sante’ date ai ‘cani’.
Vivere ‘dentro’, crescere l’interno, staccarsi da tutto, non per rimaner sospesi fra cielo e terra, ma ‘radicati’ in Cielo, fissi nel Cuore di Cristo, attraverso il Cuore di Maria, in un soggiorno trinitario, preludio della Vita che verrà”[4].
Infatti, il pericolo di una spiritualità, nella quale si è continuamente proiettati fuori di sé verso gli altri, è quello di perdere di vista la radice che ci anima e di confondere i doni di Dio, vale a dire la pienezza che proviamo quando amiamo e lavoriamo per lui, con Dio. Occorre essere staccati da tutto, “radicati in Cielo”, “in un soggiorno trinitario”, anche in mezzo alle nostre occupazioni. “Vivere ‘dentro’ innalzati in croce dalle nostre mani”[5].
Vivendo la volontà di Dio ci innalziamo su una croce che è contemporaneamente croce e gioia. La volontà di Dio può mutare continuamente e in questo cambiamento, che è distacco, giungiamo a possedere Dio solo. Chiara ci dice che dobbiamo desiderare questo distacco affinché Dio possa risplendere:
“Desiderosi… di lasciare l’Opera che abbiamo costruito e passarla ad altre mani perché la continuino, o pronti a vederla momentaneamente morire, come il chicco di grano, onde rifiorisca moltiplicata”[6].
Ecco la “attrattiva” della sua vita, che lei attribuisce al “tempo moderno”:
“Penetrare nella più alta contemplazione
e rimanere mescolati fra tutti,
uomo accanto a uomo”[7].
Un amore vero
È un equilibrio da mantenere, tra preghiera e vita proiettata verso gli altri:
“Se uno per impazienza trascura la presenza di Dio dentro la sua anima, la sua vita – anche se appare carità fraterna – è una carità frivola, leggera, superficiale e pericolosa, perché non poggia sulla Roccia: non è quindi carità. Questa persona appare come una trottola. Se invece una persona è rattrappita su se stessa, senza l’amore, è morta”[8].
Staccati da tutto, Cristo vive in noi ed è lui a fare l’unità. Allora, non esiteremo ad andare verso il fratello “che ha qualcosa contro di noi” prima di presentarci all’altare, come Gesù ha domandato: “Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono” (Mt 5, 23-24).
L’iniziativa della riconciliazione, come questa frase del Vangelo di Matteo sottolinea, non dipende dai miei torti verso il fratello, ma dal fatto che mi sono accorto che l’unità è venuta meno. Volere l’unità implica che non si stia a calcolare da chi o da dove viene l’errore o la colpa.
Vivendo “dentro” avremo il coraggio del patto dell’amore reciproco, di dichiararci l’un l’altro di essere pronti ad amarci come Gesù ci ha amato. Avremo anche il coraggio di stringere un patto reciproco di misericordia: infatti, la vita dell’unità può conoscere soste e non è raro che una pagliuzza nell’occhio del fratello ci sembri una trave, il che è generalmente reciproco.
Perché Gesù possa continuare a vivere in noi, Chiara ci invita a riconoscere umilmente le nostre incapacità, a domandarci perdono e dichiararci reciprocamente il desiderio di vederci nuovi come non ci fossimo mai conosciuti, affinché i nostri rapporti siano illuminati dalla presenza di Cristo che sarà allora di nuovo “in mezzo” a noi.
Vivendo così, offriamo “al prossimo solo la linfa che sgorga dal Cielo dentro di noi, per servirlo veramente, e non scandalizzarlo con la nostra troppo poca santità”[9]. Ben radicati in questo atteggiamento, comunicheremo ai nostri fratelli, con la prudenza necessaria, le meraviglie che Dio opera in noi:
“Vivere ‘dentro’… perché Cristo continui, anche attraverso di noi, l’opera di riunificazione in un mondo arlecchino che soffre, che spera, che vuol dimenticare, che teme, che fa pena al nostro cuore oggi, come le turbe, ieri, a Gesù.
Vivere ‘dentro’ per trascinare il mondo, che vive solo ‘fuori’, negli abissi dei misteri dello spirito, dove ci si eleva e ci si riposa, ci si conforta e ci si rinforza, si ritrova lena per ritornare sulla terra a continuare la battaglia cristiana fino alla morte”[10].
Per Chiara il gioco indissociabile dell’individuale e del collettivo non crea tensioni: in Cristo, è tutt’uno.
L’unità, compresa in modo giusto, nasce dall’ascesi sommariamente descritta (lasciar vivere in noi Cristo, la sua parola) ed è una verifica esistenziale della verità del cristianesimo. Gesù ha legato inscindibilmente il dono della gioia alla vita in unità (cf. Gv 17, 13) e nulla esprime meglio la piena realizzazione della persona quanto la (sua) gioia. La vita d’unità reca con sé una dinamica pasquale che traspone chi la vive in una nuova dimensione di risurrezione, di gaudio pieno. Nell’unità vissuta in Gesù, l’individuo e la comunità si trovano in rapporto armonioso perché ciascuno dà il meglio di sé, Cristo. Non c’è più nessuna dicotomia, tra vita religiosa e vita fraterna: si tratta di un principio unificante che investe la vita di ciascuno.
[1] C. Lubich, Inedito, 15 ottobre 2002.
[2] Id., Le Parole d’un Padre, in La dottrina spirituale, Città Nuova, Roma 2006, p. 157.
[3] Id., Se siamo uniti, Gesù è fra noi, in op. cit., p. 161.
[4] Id., Vivere dentro, in op. cit., pp. 111-112.
[5] Ibid.
[6] Id., Inedito, 8 settembre 1970.
[7] Id., Uomo accanto a uomo, in op. cit., p. 249.
[8] Id., Equilibrio divino,in op. cit., p. 191.
[9] Id., Vivere dentro, in op. cit., p. 112.
[10] Ibid.